lunedì 28 marzo 2011

LA SCELTA DELL’8 PER MILLE

Essendo, fin dagli anni del liceo, un convinto non credente, quando mi trovo di fronte alla scelta dell’8 per mille ho una scelta obbligata. So bene che l’assurda regolamentazione calcolerebbe una mia eventuale astensione a favore della scelta maggioritaria, cioè a favore della chiesa cattolica. E quindi sono obbligato a votare, con due opzioni: se c’è un governo appena decente sottoscrivo per lo Stato, quando al governo c’è questa banda indecente sottoscrivo per la chiesa evangelica, della quale conosco anche apprezzabili rappresentanti e fedeli (per carità, conosco anche moltissimi cattolici degni di stima e di affetto, ma la loro chiesa ufficiale proprio non la sopporto e la considero uno dei mali del Paese).


Mi piacerebbe lanciare a questo proposito una proposta. Sarebbe possibile uno specifico e dettagliato impegno della chiesa evangelica, reso ovviamente pubblico, in favore di azioni di accoglienza e ospitalità nei confronti delle persone che abbandonano i paesi mediterranei, transitano da Lampedusa, offrendo alla beceraggine leghista ulteriori argomenti di istupidimento di massa sui rischi che dovremmo correre? Insomma un’azione solidale che avrebbe anche un’immediata ricaduta culturale e politica: ridurre le entrate della chiesa cattolica (costringendola semmai a ripercorre i declamati e mai percorsi sentieri di povertà); far crescere e fortificare uno spirito solidale; far crescere una coscienza di pace che non si limiti alla litania del “senza se e senza ma”  e che operi invece nella testa e nei cuori delle persone.
Utopia? Certo, per questo è bello provarci sempre.

sabato 26 marzo 2011

STRASBURGO NON È BERLINO

Ascoltare i commenti “politici” alla brutta sentenza di Strasburgo offre una ulteriore chiave di lettura della situazione del nostro Paese.
Senza dignità la beceraggine della destra, che si riduce a parlare ancora di violenti e di “Genova messa a ferro e fuoco”, come se non sia stata in ogni caso la conseguenza della strategia repressiva decisa a tavolino dal governo di destra insediato da poco, come se quelli che hanno rotto un po’ di vetrine e di bancomat e incendiato un po’ di automobili non fossero stati guidati dalle infiltrazioni dei servizi e lasciati indisturbati nelle loro scorrerie (non ne hanno fermato neppure uno per sbaglio: come mai?).
Assordante il silenzio dell’opposizione parlamentare. D’altra parte non ci sarebbe da aspettarsi molto da quelli che (leggi Violante e il dipietrista) si fecero in quattro per impedire la commissione d’inchiesta al tempo del governo Prodi, e anche allora con l’aiuto dell’immancabile radicale (e si sono viste recentemente altre imprese di questa poco credibile pattuglia scelta dai dirigenti del PD). D’altra parte, alla festa genovese del PD, chi riscosse calorosi applausi è stato iul neo-difensore della legalità Fini, che si è ben guardato dal ricordare che cosa faceva a Genova nel luglio 2001 nei luoghi nei quali si verificava l’applicazione della strategia decisa.
Le uniche voci si sono levate da rappresentanti della sinistra, che oggi è diventata extraparlamentare, forse anche per debolezze proprie, sicuramente a causa degli accordi bipartisan che produssero una legge elettorale che non ha uguali, per fortuna loro, nei paesi civili. C’è comunque una parte sana del Paese che ha espresso indignazione per la sentenza assolutoria di ogni responsabilità dello Stato italiano e solidarietà a Carlo; quella parte sana che tornerà a Genova quest’anno, che non si arrende, che continua a pretendere almeno la verità. Che ci aiuta a farlo.
Proveremo ad usare l’unico strumento che l’ordinamento ci consente: una causa civile, i tempi ci sono tutti. Lo scopo, ovviamente, non sarà quello di rivalerci sull’ex carabiniere che dice di aver sparato, ma di ottenere finalmente un dibattimento in un’aula di tribunale, visto che l’uccisione di Carlo non è stata ritenuta degna neppure di un processo. Insomma, la possibilità di produrre in un’aula di tribunale tutta la documentazione che conferma la responsabilità dello Stato, della catena di comando, delle decisioni assunte, del disordine pubblico provocato da chi avrebbe avuto invece l’obbligo di garantire ordine e rispetto dei diritti.
E’ utile leggere le ragioni in base alle quali sette giudici della Grande Chambre di Strasburgo hanno motivato il loro dissenso rispetto alla decisione assolutoria sostenuta dagli altri dieci. Ne ricordo qui alcune.
Hanno detto che un carabiniere, giudicato dai suoi superiori non più in grado di svolgere il servizio, invece di essere sfiltrato è stato lasciato sulla camionetta in possesso di un’arma letale.
Hanno rilevato che l’organizzazione ha il dovere di sovrintendere alla preparazione di quelli che devono garantire l’ordine pubblico e accertarne costantemente l’attitudine.
Hanno ricordato che lo stesso carabiniere ha dichiarato di non vedere nessun aggressore davanti a sé (cosa che mette in discussione il principio della legittima difesa).
Hanno rilevato che una jeep senza grate protettive non è un mezzo da impiegare in azioni violente contro i manifestanti che potrebbero giustamente reagire. Lo ha sfacciatamente dichiarato in uno dei processi genovesi (quello contro venticinque manifestanti) il capitano responsabile del reparto di carabinieri: sfacciatamente perché si era ben guardato dall’allontanare i due mezzi nell’azione repressiva, durata per altro meno di un minuto e conclusa con una fuga precipitosa che si configura come una vera e propria trappola.


Hanno persino sottolineato che per allontanare i possibili aggressori il carabiniere avrebbe potuto sparare in aria invece di fare fuoco ad altezza d’uomo come ha fatto. Sparare in aria davvero, e non come si sono inventati quattro imbroglioni, abusivamente consulenti del pubblico ministero (ricordate, il proiettile che incontra un calcinaccio che vola nel cielo di Genova e viene deviato verso il basso sotto l’occhio di Carlo!).
Sono solo alcuni spunti che dimostrano come sette giudici su diciassette si siano documentati, abbiano controllato le dichiarazioni, esaminato filmati e fotografie. Cosa che dubito abbiano fatto gli altri dieci, così come non l’hanno fatto il pm e la gip che decretarono l’archiviazione dell’omicidio.
Di queste cose si dovrà discutere in un’aula di tribunale. E di un’altra vergogna. E’ accettabile che, per tentare un depistaggio (ricordate anche quel filmato: “l’hai ucciso tu, col tuo sasso”), un carabiniere spacchi la fronte di un ragazzo colpito a morte da un proiettile? Forse, per la gentaglia della destra è accettabile anche questo.
Per la dignità di un Paese che voglia pretendere di essere civile, no.

Giuliano Giuliani



mercoledì 16 marzo 2011

CONTRADDIZION CHE NOL CONSENTE

Le due tragedie recenti, se pur così diverse tra loro, offrono spunti di accostamento al famoso verso dantesco.
I massacri ordinati dal dittatore, al quale il guascone baciava le mani, stanno avendo ragione della insurrezione. I bombardamenti hanno aperto la strada ai miliziani e ai mercenari e si annuncia la caduta dell’ultimo baluardo, Bengasi. Intanto, incuranti del prezzo atroce che tale riconquista sta costando al popolo libico (e non solo) le diplomazie mondiali stanno ancora discutendo se sia utile e praticabile, o meno, la no-fly zone, per impedire almeno le stragi commesse con l’aviazione. Sono molto più interessati a vedere come si muovono in borsa le quotazioni e a calcolare l’equivalente in barili e in metri cubi di gas. Nulla di nuovo, si dirà. Però il cinismo è ancora più squallido di quello al quale siamo purtroppo abituati.
Dove sta allora la contraddizione? Sta, a mio parere, in una visione del pacifismo che rischia di confondersi con l’indifferenza. Un intervento della comunità internazionale, con il divieto di circolazione aerea all’aviazione di Gheddafi e con una forza di interposizione, avrebbe potuto impedire i massacri e obbligare il dittatore a lasciare il campo a qualche nuova forma di democrazia. Ma per il pacifismo si sarebbe trattato, comunque, di un intervento militare, e quindi negativo a prescindere e contro il quale esprimere tutta la contrarietà. Anche a rischio di confondersi con le posizioni più negative espresse nell’ambito internazionale da Russia e Cina, cioè dal peggio che oggi esiste al mondo. Forse è il caso di riflettere sul fatto che, in Libia, non ci sarebbe stata “esportazione di democrazia” ma invece difesa di chi si batteva per avviare quel Paese sulla strada della democrazia contro le follie di un sanguinario dittatore.

In Giappone, la catastrofe nucleare sta persino facendo passare in secondo piano le distruzioni provocate dallo tsunami. I paesi diretti da governi civili hanno già messo allo studio sostanziali modificazioni delle strategie nucleari, con ampi ridimensionamenti e cancellazioni di progetti di nuove costruzioni di centrali. Ma ciò riguarda, appunto, i governi civili di paesi altrettanto civili. Da noi, ovviamente non va così. L’attenzione unica e prioritaria è guardare al rimpasto (che schifo, non usano neppure i guanti!) per accontentare gli appetiti dei cosiddetti responsabili, ai quali si sono aggiunti vecchi cialtroni temporaneamente eclissati per via delle case acquistate ad insaputa. Il capo di questa nuova schiera di postulanti è proprio l’ideatore della riprese nucleare italiana, tanto per renderci ancora più conto delle mani in cui siamo.


Ma le voci corali di cosiddetti ministri (e ministre, si è distinta persino quella che dovrebbe preoccuparsi dell’ambiente) hanno detto che si va avanti, neanche una piega. Miliardi su miliardi per poche percentuali di energia prodotta, e non si sa quando, perché i tempi sono lunghi. Governatori di destra che hanno detto sì ma non qui (escludendo categoricamente che l’impianto possa avvenire nei territori dei quali sono più propriamente s-governatori). Abolizione dei fondi per la produzione di energie alternativa (e balle su balle raccontate sull’argomento e sull’utilità delle scelte alternative da parte dei soliti servi prezzolati, ai quali si aggiunge anche qualche corifeo del centrosinistra). Il vero problema è che anche qui quello che conta sono l’impresa, gli affari, gli interessi, la cricca insomma. Chi c’è dietro Impregilo, la società del ponte sullo stretto e delle centrali? Sarebbe utile pubblicare gli elenchi. Come si fa per altri casi.
Dov’è allora la contraddizione? Che anche la costruzione di una centrale nucleare è lavoro, occupazione, anni di lavoro per tecnici, operai, progettisti, così come lo sono gli incrociatori e le corvette, o le pistole e i fucili. E allora anche le voci della tutela del lavoro, su questa questione del nucleare, appaiono flebili. Varrebbe la pena di concentrarsi un po’ di più sulle riconversioni.


mercoledì 9 marzo 2011

IL PERICOLO DEL POTERE

Non sappiamo chi abbia gettato l’ordigno, ma siamo assolutamente sicuri che non fu nessuno di noi.
D’altra parte, diversi indizi tendono a dimostrare che il … fu responsabile di quell’atto. Naturalmente, non lo possiamo provare, e la nostra conclusione è basata soltanto su presunzioni. Ma ecco alcuni fatti che conosciamo.
Un rapporto era stato indirizzato al presidente della Camera dagli agenti del servizio segreto del Governo, per prevenirlo che i membri socialisti del Congresso si proponevano di ricorrere ad una tattica terroristica, e che avevano fissato il giorno in cui questa sarebbe stata messa in esecuzione. Quel giorno era precisamente il giorno in cui l’esplosione ebbe luogo.
In previsione di ciò, il Campidoglio era stato stipato di truppe. Dato che noi non sapevamo niente di quella bomba, e che effettivamente una bomba scoppiò, e che le autorità avevano preso misure aspettandosi la sua esplosione, è naturale concludere che il … ne sapeva qualcosa.
Affermiamo inoltre che il … fu colpevole di quell’attentato che esso preparò ed eseguì con lo scopo di addossarne a noi la responsabilità e causare la nostra rovina.


       È un brano del Tallone di ferro di Jack London; i puntini di sospensione sostituiscono proprio quelle parole, tallone di ferro, che oggi potremmo sostituire semplicemente con potere. Il libro è stato scritto nel 1907 e ha costituito più di un elemento di riflessione per intere generazioni. Si dice addirittura che al Che sia stato dato il nome del protagonista, appunto Ernesto Everhard.
Ovviamente, la Camera, il Governo, il Congresso sono degli Stati Uniti. Ma è impressionante la lucidità di London nel descrivere fatti che si sarebbero verificati, con la scientificità descritta, molti anni dopo. Sembra il resoconto della strategia delle stragi messa in atto nel nostro Paese dalla fine degli anni sessanta in poi, e anche, per venire più vicini all’oggi, nel luglio genovese del 2001.
Meglio prevenire che curare, si dice. Una rigorosa attenzione ai fatti descritti non sarebbe superflua visti i tempi bui che attraversiamo e le smanie di un potere forte, incontrollato, ancora più pericoloso perché sfiduciato da una parte crescente della popolazione, grazie, in primo luogo, alla consapevolezza delle cittadine e dei giovani.

mercoledì 2 marzo 2011

EURO AL SECONDO

Qualche calcolo può essere spesso illuminante. Così come tradurre in cifre comprensibili e confrontabili le questioni sociali (e politiche) può servire. Me lo conferma quanto segue.


È notizia di ieri: la rendita finanziaria di Berlusconi ha raggiunto l’anno scorso la sommetta di 165 milioni di euro, l’equivalente del reddito netto di tredicimila operai. Notava giustamente Concita De Gregorio sull’Unità che quella montagna di reddito (senza aggiungere quelle che competono alla figliolanza) è tassata, in base alle folli regole in vigore, al 12,5%, mentre il reddito di un lavoratore è tassato mediamente al 25%.
Aggiungo per comprensione qualche esplicitazione. Se la sommetta di cui beneficia B fosse considerata come qualunque altro reddito e non come rendita finanziaria, in base alle regole attuali tutta la parte di entrate eccedente i 75.000 euro (soldi che nel caso di B sono impiegati nell’acquisto dei preservativi, specialmente dopo la telefonata di una di quelle povere ragazze che si felicitava di non aver contratto l’AIDS) verrebbe tassata al 43%. Cioè B dovrebbe pagare, oltre quello che paga oggi, altri 50 milioni di euro.
Col decreto mille proroghe, tanto per fare un esempio, hanno tolto all’assistenza oncologica 5 milioni. Per i danni dell’alluvione in Liguria dovrebbero arrivare 100 milioni di euro. Con 50 milioni di euro si potrebbe aumentare di 100 euro mensili la pensione sociale di quarantatremila pensionati poveri, ecc., ecc.
E al povero B rimarrebbero comunque novantaquattro milioni di euro da godersi, cioè quasi 8 milioni di euro al mese, cioè 270 mila euro al giorno, cioè più di diecimila euro all’ora (comprese ovviamente quelle notturne che sembrano, per B, le più impegnative), cioè 170 euro al minuto, cioè 3 euro al secondo.
Cioè per ogni bambino che muore di fame al mondo lui si metterebbe comunque in tasca 3 euro. Forse c’è un nesso.


martedì 1 marzo 2011

LA GELMINI NON TREMA

Il ministro della difesa tedesco si è dimesso. Non sono bastate le scuse, neppure l’umiliazione davanti al parlamento. Non ha potuto fare altro che dimettersi. Eppure il giovane rampante cristiano democratico (questi cristiani con varie aggettivazioni sono sempre di mezzo!), era addirittura il principale candidato alla sostituzione della Merkel alla guida del governo.
Perché? Perché è venuto fuori che la sua laurea era frutto di una tesi farloffa, copiata da altri studenti.


Cioè, in un paese civile come è la Germania, un imbroglio comunque estraneo alla attività di governo, che non ha compromesso in nessun modo quella attività, è un motivo ritenuto più che sufficiente per annullare una prestigiosa carriera politica. Da noi si continua a fare il ministro non solo con lauree e abilitazioni per le quali sono stati necessari lunghi viaggi e trasferimenti verso atenei dotati di buon cuore, ma si mantiene il cadregone anche dopo che il capo del bunga bunga ha attaccato gli insegnanti e lo stesso impianto costituzionale della scuola pubblica. Non è bastata la riforma distruttrice, la indecente ministra si è limitata ad elogiare anche in questo caso il capo.
Impossibile attendersi gesti di civiltà come quelli dell’ormai ex ministro tedesco. Questi se ne andranno soltanto quando cadrà l’albero al quale sono disperatamente appesi.