martedì 25 ottobre 2011

ARISTOCRAZIA FINANZIARIA

D’ora innanzi regneranno i banchieri”… I banchieri, i re della Borsa, i re delle ferrovie, i proprietari delle miniere di carbone e di ferro (aggiungiamo del petrolio) e delle foreste, e una parte della proprietà fondiaria venuta con essi a un accordo: la cosiddetta aristocrazia finanziaria. Essa… dettava leggi nelle Camere, essa distribuiva gli impieghi dello Stato, dal ministero allo spaccio dei tabacchi (e non solo!)
La borghesia industriale propriamente detta formava una parte dell’opposizione ufficiale, era cioè rappresentata nelle Camere solo come minoranza. La sua opposizione si presentava in modo tanto più deciso, quanto più nettamente si sviluppava il dominio esclusivo dell’aristocrazia finanziaria e quanto più essa stessa immaginava fosse assicurato il suo dominio sopra la classe operaia (grazie a Marchionne e a Bonanni).
Impossibile subordinare l’amministrazione dello Stato all’interesse della produzione nazionale senza stabilire l’equilibrio nel bilancio, l’equilibrio tra le uscite e le entrate. E come stabilire questo equilibrio senza limitare le spese dello Stato, cioè senza vulnerare interessi che erano altrettanti sostegni del sistema dominante, e senza riordinare la ripartizione delle imposte, cioè senza rigenerare una parte notevole del peso delle imposte sulle spalle della grande borghesia stessa?


L’indebitamento dello Stato era, al contrario, l’interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato, mediante operazioni di Borsa al cui segreto erano iniziati il governo e la maggioranza della Camera. In generale la situazione instabile del debito pubblico e il possesso dei segreti di Stato offrivano ai banchieri e ai loro affiliati nelle Camere la possibilità di provocare delle oscillazioni straordinarie, improvvise, nel corso dei titoli di Stato; e il risultato costante di queste oscillazioni non poteva essere altro che la rovina di una massa di capitalisti più piccoli e l’arricchimento favolosamente rapido dei giocatori in grande. Poiché il disavanzo dello Stato era nell’interesse diretto della frazione borghese dominante, si spiega come le spese straordinarie dello Stato negli ultimi anni superassero di molto il doppio delle spese straordinarie precedenti.
Le enormi somme che in tal modo passavano per le mani dello Stato davano inoltre l’occasione a contratti di appalto fraudolenti, a corruzioni, a malversazioni, a bricconate d’ogni specie. Lo svaligiamento dello Stato, che si faceva in grande coi prestiti, si ripeteva al minuto nei lavori pubblici, i rapporti tra la Camera e il governo si moltiplicavano sotto forma di rapporti tra amministrazioni singole e singoli imprenditori.
Al pari delle spese pubbliche in generale e dei prestiti dello Stato, la classe dominante sfruttava le costruzioni ferroviarie (non sarà mica la TAV?). Le Camere addossavano allo Stato i carichi principali e assicuravano la manna dorata all’aristocrazia finanziaria speculatrice. Sono nella memoria di tutti gli scandali che scoppiarono alla Camera dei deputati quando il caso fece venire a galla che tutti quanti i membri della maggioranza, compresa una parte dei ministri, partecipavano come azionisti a quelle medesime costruzioni ferroviarie che essi facevano poi, come legislatori (parlerà mica di Lunardi?), eseguire a spese dello Stato.

Sapete chi l’ha scritto, e quando? Si tratta dell’introduzione a Le lotte di classe in Francia, un prezioso saggio di Carlo Marx del 1852! Centosessant’anni fa! Ma è possibile che ci si ostini a non ascoltarlo più?

lunedì 17 ottobre 2011

ROMA GENOVA

Le prime notizie sulla grande partecipazione e sullo spirito che animava giovani e meno giovani mi consolavano del fatto di non esserci potuto andare. Poi la telefonata di mia figlia mi parlava di uno spintone che l’aveva fatta scendere dal marciapiedi e del successivo “signora, dobbiamo passare” rivoltole dal tizio in completino nero. Un linguaggio strano per un black bloc, più consono a un infiltrato. Inevitabile tornare a Genova, alla strategia allora inaugurata, “reprimere con il consenso dell’opinione pubblica”. Come? Si lasciano rompere vetrine e bancomat, bruciare automobili, e poi si attaccano violentemente i veri obiettivi, i manifestanti veri, quelli che si attengono a un comportamento pacifico, per convinzione o per scelta.
Ma allora la lezione di Genova non è servita a niente? E chi avrebbe dovuto farne tesoro: i responsabili di allora che sono ancora tutti al loro posto, anzi hanno cambiato ufficio salendo di un piano? Gli ufficiali che hanno aggiunto una stella alla mostrina o circondato quelle esistenti d’argento o d’oro? Certo che no. Sta qui la responsabilità istituzionale. Fanno davvero un po’ pena i complimenti alle forze dell’ordine “perché poteva scapparci il morto”, come ha detto il ministro degli Interni. Che cosa risponde alla domanda più semplice: sapevate che c’erano rischi, che cosa avete fatto per scongiurarli? E tutti quegli uomini in borghese che giravano, per niente invisibili: a controllare che cosa?


Le scene di Genova si riproducono, identiche nella loro assurdità. Sono sovrapponibili persino le fotografie, l’impugnatura della spranga che rompe la vetrina della banca, il martello che manda in frantumi il finestrino dell’automobile mentre il compare getta benzina. Identica anche la scena del blindato dei carabinieri dato alle fiamme. Nessuno interviene a difenderlo, si attende che gli occupanti scendano e poi via. Con un’aggravante rivoltante: sul retro ci scrivono “Carlo vive”. Palese l’intenzione di coprire un’impresa gaglioffa con il manto della vendetta. Vergogna!
Stupisce che qualcuno si dedichi ad analisi sociologiche, che si parli ancora di pratiche diverse. Viene in mente quel “ciascuno ci sta con le sue modalità”, che tentava di coprire le differenze e armonizzare le diverse anime del movimento, nell’illusione che la sacrosanta parola d’ordine del no alla globalizzazione potesse essere sufficiente. Genova dimostrò che non era così, mi pare insensato riproporre quella illusione. Le logiche distruttive, la sottocultura ultras, non nascono spontaneamente, ci sono dietro un’organizzazione, dei referenti. Non è difficile individuarli. Se non lo si fa è perché va bene così, ci si guadagna allarme e condivisione per una logica repressiva indiscriminata. Ma rendere inefficaci quelle illogicità è anche compito delle strutture politiche, e può dipendere anche da quanti condividono le speranze e le giuste aspirazioni dei tanti giovani che erano a Roma.
Con la coscienza del diritto a resistere che deriva anch’esso dalla esperienza di Genova. Lo ha scritto nella sentenza la Corte d’appello che ha giudicato alcuni manifestanti: assolti o condannati a pene minime cadute in prescrizione perché avevano reagito a cariche violente e ingiustificate dei reparti speciali dei carabinieri. Ecco, spaccare la vetrina di una banca pensando di colpire il simbolo del capitalismo è un reato che va punito con equilibrio (e anche una idiozia, perché il giorno dopo aumentano le tariffe assicurative, strumento indiscutibile della globalizzazione finanziaria!). Resistere a una carica violenta è un diritto.
E anche una pratica rispettabile. Carlo ci ha provato.

sabato 1 ottobre 2011

MISCELLANEA


Ogni giorno ha la sua pena, talvolta due o più. Figuriamoci quante ne ha una settimana. Provo a commentarne qualcuna.

1. Il big del made in Italy, Della Valle, attacca i politici e, di fatto, avanza una candidatura. No, grazie. Per due ragioni: la prima è che di imprenditori scesi in politica ne abbiamo davvero abbastanza; la seconda è che un attacco a tutta la classe politica è proprio sbagliato. Non sono tutti uguali, anche se il livello di moralità e sceso (ma questo riguarda tutto il Paese e non solo la classe politica). Sostenerlo è il migliore appoggio al berlusconismo, ci pensa già il grillismo e non è proprio il caso che anche il padrone delle scarpe ci metta del suo. Vale anche per Montezemolo, che anche quanto a imprenditoria non sembra proprio un genio, basta vedere come vanno Fiat e Ferrari.

2. Proseguono gli attacchi indecenti all’informazione televisiva, quella decente ovviamente, quella di una parte del servizio pubblico. I giornalisti di RAI3 proseguono la loro denuncia, anche Linea notte corre seriamente il rischio di essere depotenziata. Che fare? Non pagare il canone? Solo se si riuscisse a mettere in piedi una class action, perché in questo caso le azioni individuali non hanno senso. E comunque si danneggerebbe solo il servizio pubblico. Spegnere per sempre il televisore? Neppure, perché comunque, in qualche caso, offre strumenti di conoscenza. Allora? Allora non resta che saper selezionare i programmi. Gli indici di ascolto sono determinanti per le scelte delle emittenti, e se cala l’audience qualche provvedimento lo prendono. Per esempio, dopo l’allontanamento della Costamagna, sostituita dal vicedirettore del giornale di Berlusconi, non guardo più In onda, la trasmissione de La7, di cui era conduttrice. Se lo facessimo in tanti (si potrebbe persino fare un gruppo su Fb: suggerimento a chi li sa fare!), potremmo persino raggiungere un piccolo risultato incoraggiante.

3. La buona, anzi buonissima, notizia è la raccolta di un milione e duecentomila firme per il referendum sulla legge elettorale. Secondo risultato nella storia di tutti i tempi, secondo solo alla raccolta del ’93. E’ un risultato incoraggiante, proprio per la partecipazione, in un tempo molto limitato, di tante persone. Persone, appunto, non militanti. Non è un risultato di partito, o di coalizioni: è una scelta consapevole di persone, alla quale un po’ di organizzazioni hanno contribuito al più con i “banchetti”, come ha detto il segretario del Pd. Ed è per questa ragione che trovo negativo che una parte della sinistra si sia schierata contro il referendum, non comprendendo che non si trattava tanto di scegliere il mattarellum al posto del porcellum, ma di manifestare la volontà di abrogare la peggior legge elettorale del mondo civile.

4. La Lega sta offrendo il meglio di sé. Bossi pretende di scegliere il governatore della Banca d’Italia in base al luogo di nascita. L’autore del porcellum “semplifica” il federalismo con la costituzione dello stato lombardo-veneto (balordaggine, secondo il presidente della Repubblica). L’eurodeputato Salvini, fresco di barbetta, individua le ragioni della crisi nel fatto che in un comune della Sicilia (dove governano da troppo tempo i suoi alleati) pagano tutto l’anno gli spalatori. Il ministro degli Interni permette che il suo gruppo voti la fiducia a un indagato per mafia. Meno male che le cronache ci raccontano di una base in fermento. La sinistra vorrà rivolgere ai tanti operai che al Nord votano Lega una proposta programmatica per recuperare ritardi e insufficienze e consentire che il fermento non si imputridisca?

5. Naturalmente, mentre il Paese va a rotoli, questa banda di cialtroni si preoccupa di accelerare sulle intercettazioni, indispensabili, come si sa, per cercare di scoprire le malefatte. E imbrogliano come sempre sui numeri: parlano di 150.000 intercettati (sono al più sei mila) e di tre milioni di intercettazioni. Ricordiamoci sempre che, per citarne soltanto una, senza intercettazioni non avremmo saputo di quegli sporchi padroni che sghignazzavano sul terremoto dell’Aquila pensando ai prossimi affari.

6. A Milano Pisapia denuncia che un commerciante su cinque è vittima dell’usura camorristica. Il comandante dei carabinieri milanesi, destinato ad altro incarico (auguri ai destinatari), dice che le denunce sono state solo una decina. Appunto!

Alla prossima.