A
botta calda, e in attesa di conoscerne i dettagli, qualche riflessione sulla
sentenza della Cassazione relativa ai dieci manifestanti del G8.
Con
un’ovvia premessa: questa. Considero che una delle frasi più strabilianti che in
queste occasioni viene stucchevolmente riproposta è: “le sentenze non si
commentano”. E perché mai non si potrebbero commentare? Le sentenze, quando
sono definitive, agiscono comunque, siano esse considerate espressione di
democrazia o conseguenza di un potere autoritario dello Stato. Commentarle può
semmai servire a cercare di capire il funzionamento della giustizia, i limiti
che si possono intravedere, per poter lavorare sul piano legislativo, per
mettere mano alle necessarie riforme, quelle davvero necessarie, naturalmente.
E
allora la prima riflessione è: come è possibile che sia rimasta in piedi
l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e
saccheggio? Una norma fascista (codice Rocco) vergognosamente presente
nell’ordinamento e, per fortuna, raramente utilizzata nelle aule dei tribunali.
Cioè: dieci persone, che manco si conoscevano, si associano per devastare e
saccheggiare. Assolutamente incredibile. Il permanere di quest’accusa insensata
ha fatto sì che le riduzioni di pena per il decadere di altre contestazioni
siano davvero insignificanti: qualche mese a fronte di condanne in anni a due
cifre.
Seconda
riflessione. Alla fine, cinque persone (gli altri cinque pare che dovranno
tornare in Appello per rivalutare le attenuanti) vanno in galera subito perché
ritenute responsabili di quello che è successo a Genova. Cioè, cinque persone
devastano e saccheggiano irridendo l’attenta e meticolosa sorveglianza di
sedicimila tutori dell’ordine (tanti erano a Genova, fra carabinieri, poliziotti,
finanzieri, guardie penitenziarie, addetti alle batterie missilistiche e
incursori della marina, questi ultimi, per la verità, a protezione degli otto cosiddetti
grandi dai possibili attacchi dei no-global con sottomarini atomici!). Siamo
ben oltre il ridicolo, se non fosse grave per quei cinque e per gli altri
cinque.
Terza
riflessione. Cinque subito in galera, per gli altri si vedrà. Per quale reato,
in sostanza? Danni a cose. Per la Diaz, ancorché importante la destituzione di
alcuni notabili, nessuna condanna per danni alle persone. Dalle due sentenze
non può non discendere l’amara considerazione che la vita umana vale poco,
quasi niente in confronto a quanto si ritiene che valga la proprietà. È così
anche per la mafia. Che schifo. Intendiamoci: rompere una vetrina, un bancomat,
o incendiare un’automobile sono indubbiamente reati e come tali vanno
perseguiti e puniti. Con pene equilibrate, per quanto severe, commisurate al
danno arrecato e, anche, al rapporto con pene emesse in ben altri contesti.
Ricordo che la maggior pena erogata in appello a un manifestante (15 anni)
superava di un anno la somma delle pene comminate ai quattro poliziotti
delinquenti che hanno ucciso Federico Aldrovandi (3 anni e mezzo a testa fanno
in tutto 14 anni).
Quarta
riflessione. Ma è possibile che, a proposito delle devastazioni, a nessun
pubblico ministero sia venuto o venga in mente di procedere all’esame delle
responsabilità di alti ufficiali e alti funzionari che, perfettamente a
conoscenza delle scorribande dei black bloc nella mattinata di venerdì 20
luglio 2001, dalle undici e mezza alle due, non fanno assolutamente nulla per
fermarli? Che non si consideri strano che non ne sia stato fermato neppure uno?
Che non abbiano ascoltato con la necessaria attenzione le telefonate intercorse
tra alti ufficiali che commentano con sarcasmo il fatto che i black bloc “per
ora si stanno armando in piazza Paolo da Novi, ma non è zona rossa”? Che non
abbiano verificato che in quella stessa piazza è presente un’intera compagnia di
carabinieri che non interviene, salvo poi cominciare a picchiare i Cobas che
con i black bloc non hanno nulla da spartire? Inefficienza o complicità? Meglio
non cercare grane, meglio rispolverare un articolo del codice Rocco!
E poi ci sono sempre l’assassinio di Carlo e le violenze sul suo corpo.
Ma siamo testardi, cercheremo comunque di ottenere almeno un processo, un
dibattimento pubblico, contro una della tante vergogne del luglio genovese,
l’archiviazione. E lo rivendicheremo ancora una volta in piazza Alimonda il 20
luglio.