sabato 14 luglio 2012

UNA SENTENZA DAVVERO BRUTTA



A botta calda, e in attesa di conoscerne i dettagli, qualche riflessione sulla sentenza della Cassazione relativa ai dieci manifestanti del G8.
Con un’ovvia premessa: questa. Considero che una delle frasi più strabilianti che in queste occasioni viene stucchevolmente riproposta è: “le sentenze non si commentano”. E perché mai non si potrebbero commentare? Le sentenze, quando sono definitive, agiscono comunque, siano esse considerate espressione di democrazia o conseguenza di un potere autoritario dello Stato. Commentarle può semmai servire a cercare di capire il funzionamento della giustizia, i limiti che si possono intravedere, per poter lavorare sul piano legislativo, per mettere mano alle necessarie riforme, quelle davvero necessarie, naturalmente.
E allora la prima riflessione è: come è possibile che sia rimasta in piedi l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio? Una norma fascista (codice Rocco) vergognosamente presente nell’ordinamento e, per fortuna, raramente utilizzata nelle aule dei tribunali. Cioè: dieci persone, che manco si conoscevano, si associano per devastare e saccheggiare. Assolutamente incredibile. Il permanere di quest’accusa insensata ha fatto sì che le riduzioni di pena per il decadere di altre contestazioni siano davvero insignificanti: qualche mese a fronte di condanne in anni a due cifre.

Seconda riflessione. Alla fine, cinque persone (gli altri cinque pare che dovranno tornare in Appello per rivalutare le attenuanti) vanno in galera subito perché ritenute responsabili di quello che è successo a Genova. Cioè, cinque persone devastano e saccheggiano irridendo l’attenta e meticolosa sorveglianza di sedicimila tutori dell’ordine (tanti erano a Genova, fra carabinieri, poliziotti, finanzieri, guardie penitenziarie, addetti alle batterie missilistiche e incursori della marina, questi ultimi, per la verità, a protezione degli otto cosiddetti grandi dai possibili attacchi dei no-global con sottomarini atomici!). Siamo ben oltre il ridicolo, se non fosse grave per quei cinque e per gli altri cinque.
Terza riflessione. Cinque subito in galera, per gli altri si vedrà. Per quale reato, in sostanza? Danni a cose. Per la Diaz, ancorché importante la destituzione di alcuni notabili, nessuna condanna per danni alle persone. Dalle due sentenze non può non discendere l’amara considerazione che la vita umana vale poco, quasi niente in confronto a quanto si ritiene che valga la proprietà. È così anche per la mafia. Che schifo. Intendiamoci: rompere una vetrina, un bancomat, o incendiare un’automobile sono indubbiamente reati e come tali vanno perseguiti e puniti. Con pene equilibrate, per quanto severe, commisurate al danno arrecato e, anche, al rapporto con pene emesse in ben altri contesti. Ricordo che la maggior pena erogata in appello a un manifestante (15 anni) superava di un anno la somma delle pene comminate ai quattro poliziotti delinquenti che hanno ucciso Federico Aldrovandi (3 anni e mezzo a testa fanno in tutto 14 anni).
Quarta riflessione. Ma è possibile che, a proposito delle devastazioni, a nessun pubblico ministero sia venuto o venga in mente di procedere all’esame delle responsabilità di alti ufficiali e alti funzionari che, perfettamente a conoscenza delle scorribande dei black bloc nella mattinata di venerdì 20 luglio 2001, dalle undici e mezza alle due, non fanno assolutamente nulla per fermarli? Che non si consideri strano che non ne sia stato fermato neppure uno? Che non abbiano ascoltato con la necessaria attenzione le telefonate intercorse tra alti ufficiali che commentano con sarcasmo il fatto che i black bloc “per ora si stanno armando in piazza Paolo da Novi, ma non è zona rossa”? Che non abbiano verificato che in quella stessa piazza è presente un’intera compagnia di carabinieri che non interviene, salvo poi cominciare a picchiare i Cobas che con i black bloc non hanno nulla da spartire? Inefficienza o complicità? Meglio non cercare grane, meglio rispolverare un articolo del codice Rocco!
E poi ci sono sempre l’assassinio di Carlo e le violenze sul suo corpo. Ma siamo testardi, cercheremo comunque di ottenere almeno un processo, un dibattimento pubblico, contro una della tante vergogne del luglio genovese, l’archiviazione. E lo rivendicheremo ancora una volta in piazza Alimonda il 20 luglio.

giovedì 5 luglio 2012

DIAZ: CONDANNATI I MACELLAI


Di questi tempi sono poche le occasioni nelle quali sembra di vivere in un Paese normale. Questa è davvero una di quelle: la Cassazione ha confermato la sentenza d’appello per la macelleria e gli imbrogli praticati alla scuola Diaz la sera del 21 luglio 2001. Nessuno andrà in galera (non sono mica immigrati o tossici), godranno tutti delle porcherie legislative (tempi e prescrizioni) introdotte dalla maggioranza berlusconiana a tutto vantaggio del suo capo. Ma la conferma avrà una conseguenza significativa: i massimi responsabili (divenuti tali perché addirittura promossi in questi anni) dei più importanti servizi nazionali della polizia saranno esclusi per cinque anni dalle loro funzioni. Insomma, sembra che, per questa volta, Roma stia nelle vicinanze di Berlino!


Certo, una sentenza non risolve tutti i gravi problemi che i tragici avvenimenti del luglio genovese hanno sollevato, e che sono in gran parte rimasti senza risposta. E’ persino ovvio che io rivolga il mio pensiero all’omicidio di Carlo, restato persino senza un processo a causa di una indecorosa archiviazione che assunse l’imbroglio dello sparo per aria e della deviazione del proiettile da parte di un calcinaccio (sì un imbroglio indecoroso, perché i magistrati che chiesero e decisero l’archiviazione non si curarono neppure di vedere il filmato che mostra la pistola assolutamente parallela al suolo e puntata in direzione di Carlo). E’ persino ovvio che faremo tutto quello che l’ordinamento prevede per ottenere almeno un dibattimento pubblico per dimostrare quale è la verità che l’archiviazione si è proposta di cancellare.
Ma ci sono anche problemi di carattere generale che dovrebbero trovare risposte convincenti. C’è stato un degrado nella conduzione dell’ordine pubblico, che ha assunto sempre più soltanto la risposta repressiva dimenticando del tutto la funzione preventiva e dissuasiva. E ciò ha contribuito a creare in reparti delle forze dell’ordine una aberrante tendenza all’abuso della forza sostenuto dalla convinzione, continuamente affermata, della impunità. Si è tornati molto indietro rispetto alla grande riforma dell’81. Può contribuire a questo stato di cose il fatto che, in operazioni di ordine pubblico, è costantemente impiegata una forza militare. Tale infatti è l’arma dei carabinieri, dopo l’incredibile nomina dalemiana a quarta forza armata. Che in ordine pubblico dovrebbe agire sempre sotto la guida di un funzionario di PS, cosa che spesso non succede (come è accaduto in diverse circostanze a Genova, ad esempio).
E c’è la questione generale del principio di responsabilità. Testi classici, autorevoli commentatori, lessici disciplinari sollecitano a pensare che la responsabilità stia sempre in alto e che dall’alto, per li rivoli, discenda verso il basso. Quando mi chiedono a chi attribuisco la responsabilità dell’omicidio di Carlo indico nell’ordine: Fini, che dirigeva politicamente l’operazione, il capo della polizia, gli ufficiali presenti in piazza Alimonda e da ultimo (ammesso che sia stato davvero lui a sparare) il giovane carabiniere (peraltro rinviato a giudizio qualche giorno fa per violenze sessuali su una ragazzina). Con questa regola, uno dei principali responsabili di quanto accaduto a Genova non può non essere Gianni De Gennaro. Nel pomeriggio di sabato 21 luglio arrivò a Genova il prefetto La Barbera, numero due della polizia, che esautorò di fatto tutto lo staff e diresse personalmente l’operazione Diaz (quando si rese conto di quanto stava accadendo, prese una macchina e andò via precipitosamente, forse per evitare che il suo grande curriculum di poliziotto antimafia potesse essere macchiato). La Barbera morì l’anno successivo, e quindi non potè partecipare alle udienze delle varie fasi del processo. Ma è pensabile che il capo della polizia non sapesse che cosa veniva a fare a Genova il suo numero due? Che non fosse dell’avviso che si dovesse recuperare un po’ di credibilità dopo lo sfacelo nella conduzione dell’ordine pubblico e che quindi si dovessero arrestare (dopo averli massacrati) quei 93 terribili organizzatori dei disastri che dormivano nella scuola? Che non si dovesse recuperare lo choc procurato dall’omicidio di Carlo? De Gennaro è stato di recente assolto in Cassazione dopo la condanna in Appello per l’accusa di concussione che avrebbe operato nei confronti di un questore perché testimoniasse a suo favore (“il capo non sapeva niente”). Ha avuto promozioni successive, prima direttore del ministero degli interni, poi capo di tutti i servizi segreti unificati. L’ultima, quanto meno singolare: Monti lo ha nominato (mi permetterei di aggiungere, inopinatamente) sottosegretario agli interni. Fra i suoi compiti ci sarà anche quello di proporre, o nominare, chi dovrà sostituire gli interdetti. Non è un compito da poco!
Fra qualche giorno la Cassazione si occuperà del processo a venticinque manifestanti, di fatto una decina, dal momento che l’appello ha assolto o risolto con pene minime cadute in prescrizione (per una volta a vantaggio dei deboli, quindi) le accuse degli altri (e la motivazione è stata che avevano risposto a cariche violente, indiscriminate e immotivate dei reparti dei carabinieri). L’accusa è pesante: associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio (codice Rocco). Pesantissime le condanne, uno di essi addirittura a quindici anni (una pena che da noi si commina raramente per un omicidio). Mi auguro che la Cassazione attenui molto le condanne e soprattutto elimini quell’accusa insostenibile, fino al rischio del ridicolo: dieci manifestanti responsabili di tutto quello che è successo a Genova nel 2001!