martedì 25 giugno 2013

L’IVA E LE SCIOCCHEZZE



La CGIA di Mestre è considerata una struttura che sa far di conto e quindi prendiamo per buoni i suoi dati. In aprile ha pubblicato una interessante tabella per illustrare le ricadute dell’aumento di un punto dell’IVA. I dati apparvero sulla stampa per qualche giorno poi scomparvero, quando il tono politico cominciò a essere quello della “mannaia calata sulle teste degli italiani”, di un “ulteriore aggravio della recessione”, di una“manovra che colpisce ancora di più la crescita”. Perché? Perché i dati confermavano un’altra storia e dimostravano che erano ben altre le scelte e le decisioni che colpivano gli italiani, e in particolare quelli più deboli. Dei quali le scelte di governo si occupano solo verbalmente, per convenienza, e mai sul serio.
E allora guardiamo i dati della tabella della CGIA e commentiamoli.
Prima questione. L’aumento di un punto comporterebbe un aggravio di 103 euro su base annua (8,58 al mese) per una famiglia di 4 persone in grado di spendere 31.278 euro nel corso dell’anno. Documenta la CGIA che per una famiglia di 3 persone l’aggravio annuo sarebbe invece di 88 euro (7,33 al mese), con una capacità di spesa ovviamente ridotta. E’ interessante vedere come la CGIA ha individuato i settori di spesa della famiglia di 4 persone, ricordandone i principali. Ci sono ad esempio 7.400 euro di spesa alimentare, per i quali l’incremento annuo dell’IVA sarebbe di soli 2 euro (occorre ricordare che i prodotti fondamentali, pane pasta riso latte verdure, hanno l’IVA al 4%, carne pesce formaggi al 10%, ma per questi non è previsto nessun aumento; un prodotto colpito sarebbe lo spumante, ma è difficile considerarlo un bene primario, e in ogni caso la CGIA prevede che quella famiglia ne faccia un moderato consumo dal momento che prevede una maggiorazione su base annua di 2 euro!). Altri 2500 euro per abbigliamento, 2000 per i mobili, 1770 per il tempo libero la cultura e i giochi, 4300 per non meglio identificati beni e servizi, 729 per comunicazioni (accidenti ai telefonini!) e ben 6358 per i trasporti (sarebbe il caso che in quella famiglia si facessero qualche abbonamento).
Ma la cosa strabiliante è che i 103 euro di aggravio sono calcolati per una famiglia in grado di spendere più di 31 mila euro, quindi netti. Non viene in mente a nessuno di comparare questo dato con le dichiarazioni dei redditi? Per avere un netto di 31 mila euro il reddito lordo deve essere di 45.000 euro. Ebbene: la metà dei contribuenti italiani denuncia un reddito inferiore a 15.723 euro; il reddito medio per tutti i contribuenti è pari a 19.655 euro; quello dei lavoratori dipendenti è pari a 20.020 euro; quello dei pensionati a 15.520. Naturalmente, quello degli imprenditori è pari a 18.884, perché, come è noto, un padrone guadagna meno di un operaio che lavora per lui!
Allora, per famiglie normali, anche se lavorano in due, il reddito disponibile per la spesa è molto inferiore a quello sul quale la CGIA ha impostato i suoi calcoli, per altro giusti. Ed essendo inferiore, è persino ovvio che le riduzioni di spesa riguardino mobilia, abbigliamento, generici beni e servizi, cultura (purtroppo!) e trasporti (meglio abbonamenti e a piedi, quando è possibile!). Non riducendo le spese alimentari, per le quali l’aumento è come detto assolutamente ininfluente, si può dedurre che per una delle tante famiglie “normali” l’incidenza dell’aumento dell’IVA è pressoché prossimo allo zero o al più si riduce a qualche centesimo di euro al mese. E allora? La mannaia, la crescita colpita, la recessione? Tutte balle, tutto fumo negli occhi, pure campagne elettorali di queste bande farneticanti che pretendono di governarci. Il problema è che l’IVA sullo yacht e sulla Ferrari con l’aumento di un punto produrrà un aggravio di 10, 20 mila euro, e a quei maiali che si devono comprare lo yacht e la Ferrari dispiace! I consumi diminuiscono perché aumenta la povertà, perché aumentano disoccupati, precari, esodati, perché crescono le preoccupazioni e le angosce per il futuro. Ma di questo le caste non si occupano.
Basta vedere che fra le proposte per recuperare il gettito del punto in più di IVA (2 miliardi nei prossimi sei mesi, 4 e qualcosa il prossimo anno) c’è anche quella di aumentare le accise sulla benzina. Sono anche dei veri idioti: l’aumento del costo della benzina è stata una delle concause della riduzione degli acquisti di carburante (non male rispetto all’inquinamento, ma comunque un segnale di restringimento del reddito), e il calo del gettito fiscale proveniente dalle vendite è stato più alto del guadagno previsto con l’aumento delle accise!
Alla prossima.

VOTO: ANALISI DI UNA VOLTA



Già, una volta. Non solo si votava diversamente, ma anche l’analisi del voto era più seria. Intanto perché non ci si basava sulle percentuali, spesso ingannevoli, ma sui voti effettivi. E allora proviamoci.
Un dato è certo: in tutte le città capoluogo a cominciare da Roma nelle quali si è votato al ballottaggio, il candidato del PD e della coalizione che lo sosteneva hanno vinto superando il numero di voti ricevuti al primo turno, e ciò nonostante la crescita dell’astensionismo. Succede appunto a Roma, dove Marino acquisisce oltre 150.000 voti in più nonostante 183 mila votanti in meno, mentre Alemanno si deve accontentare di 10 mila voti in più, la metà di quelli che al primo turno sono andati a liste della destra fascista, i cui sostenitori avranno pur riconosciuto una vicinanza con le origini dell’ex sindaco. Non credo possano esistere dubbi sul fatto che una parte consistente dei voti grillini del primo turno (erano stati più di 130 mila) siano andati a Marino, che oltre tutto li aveva esplicitamente richiesti. Ma la stessa cosa avviene a Brescia (Del Bono guadagna più di 12 mila voti mentre il pidiellino si deve accontentare di un incremento  di soli 2 mila voti), a Treviso (Manildo migliora di 4 mila voti mentre il trucido sceriffo leghista si ferma a 3 mila) e a Imperia (il candidato piddino conquista 3 mila voti in più mentre il pidiellino scajolano arretra addirittura di 2 mila voti). Il PD festeggia con un 16 a 0 il voto delle grandi città, alle quali potrà probabilmente aggiungere le quattro città capoluogo della Sicilia, realizzando un vero cappotto: 20 a zero (e prima delle elezioni il punteggio era di parità, 10 a 10, ma con dentro città come Roma, Brescia, Vicenza, Viterbo, Catania, Messina che erano tutte a gestione berluschina).
Dalla Sicilia viene un risultato importante: la quasi scomparsa del movimento grillino. Alcuni dati, fra quelli pervenuti dato l’allucinante ritardo nello spoglio, la dicono lunga. A Catania, dove vince Bianco al primo turno (e non è una bella cosa, dato il livello dell’individuo) Grillo retrocede dai 18 mila voti delle regionali del 2012 e dai 48 mila delle politiche di tre mesi fa a 5.869 voti. Idem a Siracusa: dai 19 mila del 2012 e dai 22 mila e passa di tre mesi fa a 2.315 voti. Buffoni del calibro del comico e di quel sedicente filosofo genovese dicono che hanno vinto a Pomezia, in un paesino sardo e che, forse, vanno al ballottaggio a Ragusa. Chi si contenta gode, dice un tiepido proverbio, ma la questione sembra proprio un’altra: tre mesi di figuracce, di insipienza, di non fare nulla rispetto alle promesse hanno già stancato e disilluso una fetta enorme di cittadini che a quel movimento si erano rivolti attratti dalle imprecazioni contro la casta, assolutamente giuste ma altrettanto assolutamente insufficienti a determinare un orientamento politico e soprattutto una strategia con la quale tentare di portare a soluzione almeno uno dei problemi che affliggono sempre di più il paese.
Resta impressionante la celerità con la quale si cambia opinione nei confronti delle cinque stelle contrapposta alla lentezza con la quale ci si allontana da quel buco nero della decenza e della politica rappresentato dalla truppa berlusconiana. Ma può destare impressione anche il fatto che, nonostante l’inciucio, altrimenti detto larghe intese dai suoi promotori, e il conseguente governo Lupetta (ringrazio ancora una volta Crozza per una delle sue genialità: Lupi+Letta=Lupetta!), una parte ancora così rilevante del corpo elettorale, per quanto ulteriormente ridotto dall’astensione, abbia dato fiducia al PD. Conta indubbiamente la logica del meno peggio, anche se non sempre è così (nel senso che al peggio non c’è mai fine!) o in qualche caso non lo è davvero (vedi Roma, dove sicuramente la scelta di Marino è stata un’ottima scelta, basta guardarsi indietro!). Credo che prevalga lo smarrimento derivante dalla assenza di alternative. E qui il discorso ritorno al dramma della sinistra, al suo sempre più ridotto consenso, alla incapacità di offrire risposte credibili, alla sterile contrapposizione tutta ideologica e mai nel merito delle questioni. Oltre a prove di vero e proprio istinto suicida. L’altro giorno sentivo un compagno di Rifondazione esaltare con convinzione il bisogno di correnti all’interno di un partito. Come dire che, superata in discesa la soglia dell’1% ci si debba limitare alla conquista del 2 o 3 per mille dei consensi.
No, non credo proprio che quel terzo abbondante di cittadini che non votano si possano interessare alle dispute correntizie. Facciamo qualcosa prima che quel terzo diventi metà o anche più. E soprattutto non consoliamoci con la raggiunta assimilazione all’andamento presente in molti paesi dell’occidente. In quei paesi non si era mai superata la soglia del 90% di partecipazione e quindi i loro livelli attuali sono un lento calo, non un precipizio. Se c’è un precipizio ci casca dentro anche ciò che resta della democrazia.

NON SI VOTA PIÙ COME UNA VOLTA!



Ho appreso su FB che, per cercare di attenuare il crollo di consensi registrato nelle recenti elezioni amministrative, il guru delle stelle ha paragonato il recente voto di Roma con quello di cinque anni fa. Dal che risulterebbe uno strepitoso aumento del 222%! Solo un cialtrone come lui potrebbe essere capace di una cosa così azzardata. E lo conferma il fatto che i crolli degli altri (PD e PdL) sono calcolati non sulla base delle minori percentuali di voto registrate ma in percentuale sul calo dei voti ricevuti. Insomma, se gli elettori erano 100 e un partito aveva 50 voti, la sua percentuale era 50%; se poi votano in 50 e i voti ricevuti sono 25 non conta il fatto che la sua percentuale sia rimasta pari al 50%, conta invece che abbia perso il 50% dei voti (altra cosa sarebbe la preoccupazione per il calo enorme di affluenza al voto, ma di questo parliamo più avanti). Ovviamente è ridicolo che il cialtrone faccia il confronto con cinque anni fa, all’esordio del M5S, e non invece con il voto di tre mesi fa, cioè con l’altro ieri. Oltretutto a Roma si era votato negli stessi giorni anche per le regionali, vicine quindi alla logica di un voto amministrativo, e il candidato di Grillo, pur perdendo 120.000 voti rispetto al voto delle politiche (già è incredibile che 120.000 elettori cambino voto cambiando scheda!), aveva comunque ottenuto 316.923 voti, pari al 20,09%, oltre 185.000 voti in più di quelli che tre mesi dopo porta a casa il candidato sindaco, con il 12,8%.
Credo che non possano esserci dubbi sul fatto che: cianciare di scontrini; rifiutare ogni logica di governo del paese; limitarsi alle condanne dei servi dell’informazione, mistificando oltretutto il fatto innegabile che la presenza in ogni talk-show delle comparsate di Grillo nelle piazze ha certamente favorito il consenso alle liste del movimento; tutto ciò abbia deluso centinaia di migliaia di elettori (potremmo dire quasi 5 milioni se il dato si riflettesse sulla platea nazionale). Il risultato negativo pare stia creando rabbia e dissenso fra molti degli eletti. Non ci sono fra questi soltanto quelli che non intendono rinunciare così presto ai privilegi e ai soldi che le cariche parlamentari e amministrative consentono. Credo che ci siano tanti, a differenze di chi indecorosamente li rappresenta e si arroga il diritto di esserne ispiratore e portavoce, a essere davvero già stanchi di questo modo inconcludente di condurre una battaglia politica, specialmente in presenza di una crisi gravissima che ogni giorno aumenta in dimensione e pericolosità. Speriamo che qualche risultato si concretizzi. E ancora di più dopo le ultime offese del pessimo comico indirizzate contro uno dei galantuomini del paese, proprio quel Rodotà che un mese fa elettori e parlamentari grillini volevano, giustamente, come presidente della repubblica!
Dicevo del dramma dell’astensione. E’ di una dimensione spaventosa. Mette in secondo piano il fatto, pur positivo, che la destra abbia perduto consensi e che il ballottaggio potrebbe garantire a tante città una guida meno oltraggiosa di quelle precedenti della destra. Penso a Brescia, a Treviso, soprattutto a Roma: se qualcuno pensasse che Marino e Alemanno sono la stessa cosa lo inviterei a farsi ricoverare in psichiatria! Ha scritto Massimo Giannini qualche giorno fa su Repubblica: “Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana il mio voto non serve”. Si può aggiungere che purtroppo questo modo di pensare è presente proprio negli strati più deboli della popolazione. Ed è la contraddizione più lacerante, perché chi è forte, chi sta bene, chi è ricco, può anche fregarsene di chi e come si governa, mentre è proprio chi è debole che dovrebbe vedere garantito da qualche scelta di governo il diritto a forme di protezione. E invece no.  E’ proprio nei quartieri popolari che si era fatto avanti in modo prorompente il fenomeno grillino come espressione di sfiducia nella politica e che oggi si è registrata la più alta percentuale di astensione.
Che cosa conta la sinistra definita radicale? Il voto di Roma segna la definitiva scomparsa. Un candidato sindaco di valore, Medici, già valido e apprezzato presidente di un Municipio, raccoglie con una sua lista e con quella di Rifondazione e Comunisti italiani (fermi all’1,14%) soltanto l’1,99%. Oltre mille voti in meno di quelli raccolti dalla destra di Storace, Casa Pound e Forza nuova. C’è di che rabbrividire. O si comprende che si deve cambiare quasi tutto o il volontariato di quanti ancora pensano di fare qualcosa di utile per il paese e per i lavoratori è destinato a produrre soltanto frustrazione. Lo ripeto ancora una volta: i simboli e i nomi che pensiamo possano riassumere gli ideali e le giuste aspirazioni di cambiamenti profondi nell’assetto della società devono essere sostituiti da programmi concreti e realizzabili sui quali provare ancora a coinvolgere le persone. Non possiamo più ignorare che cosa la gente alla quale ci dovremmo rivolgere associa alla parola “comunismo”: senza andare indietro e stare all’oggi, il fatto che i principali miliardari del mondo siedano nel comitato centrale del partito comunista cinese, che i nordcoreani siano governati da un buffone coi capelli crestati che vorrebbe sommergere gli USA di missili lanciati con la fionda. La stessa Cuba, che a parte il familismo ha sicuramente realizzato riforme più che sane e condivisibili, ha una popolazione di 11 milioni che rispetto ai 7 miliardi di popolazione mondiale sono del tutto non rappresentativi.
Allora il riferimento ideologico non serve, può essere solo un diversivo. Forse una lista civica nazionale con un programma chiaro e leggibile potrebbe rappresentare un elemento di positività. Con il quale misurarci di nuovo nei quartieri, a cominciare proprio da quelli nei quali l’astensione dal voto può segnalare un bisogno inascoltato.

mercoledì 24 aprile 2013

NUMERI PER UN PROGRAMMA DI GOVERNO



Mi capita spesso di ripetere che sarebbe già un passo avanti per la bella politica se si cominciasse a parlare con i numeri invece di continuare a ripetere le stesse cose, a volte con parole diverse. Il vantaggio sarebbe innegabile: ognuno sarebbe in grado di riconoscere se quella proposta è favorevole o contraria alla propria condizione sociale, se lo aiuta a uscire dalla crisi e se obbliga qualcuno che non lo ha mai fatto a farsi carico dei problemi della società.
L’idea di fondo, un po’ bolscevica, è che si debba partire (esagerando un po’, ma a volte è necessario per potersi capire) da un concetto semplice: la ricchezza è un reato, commesso in proprio o da chi ha trasmesso l’eredità. E quindi che la ricchezza va colpita, nei modi consentiti dalle leggi e dai regolamenti. Cioè in primo luogo dal fisco.
Qualche esempio. Si era parlato di ridurre le prime aliquote di un punto, abbassare cioè dal 23 al 22 l’aliquota percentuale sullo scaglione fino a 15.000 euro lordi e dal 27 al 26 l’aliquota per il reddito lordo da 15.000 a 28.000 euro. Ciò avrebbe comportato riduzioni di tasse comprese fra i 150 e i 280 euro annui. Poco certo, ma in tempi di crisi non fanno schifo neppure quelli. Quello che fa schifo, invece, è che non c’era nessun riequilibrio per i redditi un po’ più alti. Quei 280 euro li avrebbero risparmiati anche Marchionne (no, lui no, perché va in Svizzera) e Berlusconi, tanto per citarne due a caso. Allora, sempre per stare ai numeri, quella proposta di riduzione dovrebbe essere integrata con l’aumento da 38 a 39 dell’aliquota fra 28.000 e 55.000 (in questo caso un reddito di 55.000 euro lordi avrebbe ancora un beneficio di 10 euro annui, ma si tratta di netti di oltre tremila euro mensili) e con l’aumento da 41 a 42 dell’aliquota per la parte di reddito fra 55.000 e 75.000 euro (e in questo caso il possessore di un reddito lordo di 75.000, cioè oltre 4000 euro netti al mese, avrebbe un aggravio di 190 euro all’anno, cioè 15, 83 euro al mese, non proprio un aggravio da suicidio).
Fin qui abbiamo parlato non di ricchezza, ma di legittimi redditi che provengono dal lavoro, dall’esercizio di botteghe commerciali, da attività artigianali, quando va bene. Ma è per significare come sia necessario affrontare la questione proprio partendo dai numeri. Ovviamente occorrerebbe rivedere al rialzo la tassazione per i redditi milionari, oggi del tutto assente: infatti lo scaglione più alto previsto è quello per redditi sopra i 75.000 euro ai quali si applica una aliquota del 43 per cento. Cioè in questo paese ridicolo non c’è differenza di ricchezza fra chi ha, poniamo, un reddito di 200.000 euro e chi ha invece un reddito di 200 milioni di euro! E ricordarsi che non Lenin, ma il democristiano Vanoni aveva previsto aliquote fino al 70% per i redditi davvero alti!
E’ persino ovvio che le osservazioni che precedono indirizzano alla proposta di introdurre una patrimoniale sui grandi patrimoni, come mezzo prioritario per il reperimento dei fondi necessari a far fronte a qualche drammatico problema sociale. Patrimoniale permanente (ovviamente con aliquote più leggere), e non una tantum sia chiaro, e dell’ordine (per quella una tantum) di almeno 5 punti percentuali. E decidendo che deve considerarsi grande patrimonio quello al di sopra del milione e mezzo di euro. Se si valuta che il solo patrimonio edilizio del paese ha una consistenza di circa ottomila miliardi, anche solo una tassa patrimoniale media del 5% porterebbe nelle casse dello stato quaranta miliardi.
La questione è rilevante anche per quanto riguarda l’IMU. Ripeto fino alla noia che la più grande sciocchezza è quella di parlare e insistere sulla “prima” casa. E’ invece necessario parlare di “unica” casa: se non è di lusso è del tutto logico che l’IMU sull’unica casa venga eliminata, ricompensata da un aggravio dell’imposta su chi ha anche la seconda, la terza, la quarta e via patrimonializzando. Le tasse sono decisive, perché nel bilancio dello Stato rappresentano quasi il 90% di quei 520 miliardi di euro che sono le entrate previste per il 2013.
Due punti chiave sui quali intervenire: il bilancio della Difesa presenta una spesa di 21 miliardi, dei quali 9,68 sono il costo del personale della Funzione difesa (esercito, aviazione, marina), con i 180 mila militari, e 5,76 miliardi il costo della sicurezza interna, cioè dell’arma dei carabinieri. Non sono in quei 21 miliardi i costi per gli inutili, dannosi e inefficaci aerei, il cui contratto di acquisto va semplicemente stracciato. Ridurre il bilancio della difesa anche solo di un 5% vorrebbe dire risparmiare un miliardo. Dove metterlo? Per esempio nel bilancio di Istruzione, università e ricerca, ridotto al lumicino, nonostante i 40,7 miliardi, perché quella attività è riconosciuta come il motore fondamentale di qualunque ripresa economica finalizzata al paese e non ai guadagni illeciti di qualche sporcaccione.
Poi, certo, restituire all’Europa la lettera berlusconiana di accettazione del vincolo del 3% sulla passività di bilancio e rivendicare che in ogni caso non entrano in quel computo le passività derivanti da investimenti destinati all’attività produttiva. E qui sta il punto decisivo: riavviare con forza la presenza pubblica nell’economia, alla facce di tutte le lenzuolate e delle stupidaggini ultraliberiste sul privato è bello e sulla legge del mercato.
Per oggi basta. Ne riparliamo, sperando in critiche, correzioni, aggiornamenti. Tutto può servire.