Mi capita spesso di ripetere che
sarebbe già un passo avanti per la bella politica se si cominciasse a parlare
con i numeri invece di continuare a ripetere le stesse cose, a volte con parole
diverse. Il vantaggio sarebbe innegabile: ognuno sarebbe in grado di
riconoscere se quella proposta è favorevole o contraria alla propria condizione
sociale, se lo aiuta a uscire dalla crisi e se obbliga qualcuno che non lo ha
mai fatto a farsi carico dei problemi della società.
L’idea di fondo, un po’
bolscevica, è che si debba partire (esagerando un po’, ma a volte è necessario
per potersi capire) da un concetto semplice: la ricchezza è un reato, commesso
in proprio o da chi ha trasmesso l’eredità. E quindi che la ricchezza va colpita,
nei modi consentiti dalle leggi e dai regolamenti. Cioè in primo luogo dal
fisco.
Qualche esempio. Si era parlato
di ridurre le prime aliquote di un punto, abbassare cioè dal 23 al 22
l’aliquota percentuale sullo scaglione fino a 15.000 euro lordi e dal 27 al 26
l’aliquota per il reddito lordo da 15.000 a 28.000 euro. Ciò avrebbe comportato
riduzioni di tasse comprese fra i 150 e i 280 euro annui. Poco certo, ma in
tempi di crisi non fanno schifo neppure quelli. Quello che fa schifo, invece, è
che non c’era nessun riequilibrio per i redditi un po’ più alti. Quei 280 euro
li avrebbero risparmiati anche Marchionne (no, lui no, perché va in Svizzera) e
Berlusconi, tanto per citarne due a caso. Allora, sempre per stare ai numeri,
quella proposta di riduzione dovrebbe essere integrata con l’aumento da 38 a 39
dell’aliquota fra 28.000 e 55.000 (in questo caso un reddito di 55.000 euro
lordi avrebbe ancora un beneficio di 10 euro annui, ma si tratta di netti di
oltre tremila euro mensili) e con l’aumento da 41 a 42 dell’aliquota per la
parte di reddito fra 55.000 e 75.000 euro (e in questo caso il possessore di un
reddito lordo di 75.000, cioè oltre 4000 euro netti al mese, avrebbe un
aggravio di 190 euro all’anno, cioè 15, 83 euro al mese, non proprio un aggravio
da suicidio).
Fin qui abbiamo parlato non di
ricchezza, ma di legittimi redditi che provengono dal lavoro, dall’esercizio di
botteghe commerciali, da attività artigianali, quando va bene. Ma è per
significare come sia necessario affrontare la questione proprio partendo dai
numeri. Ovviamente occorrerebbe rivedere al rialzo la tassazione per i redditi
milionari, oggi del tutto assente: infatti lo scaglione più alto previsto è
quello per redditi sopra i 75.000 euro ai quali si applica una aliquota del 43
per cento. Cioè in questo paese ridicolo non c’è differenza di ricchezza fra
chi ha, poniamo, un reddito di 200.000 euro e chi ha invece un reddito di 200
milioni di euro! E ricordarsi che non Lenin, ma il democristiano Vanoni aveva
previsto aliquote fino al 70% per i redditi davvero alti!
E’ persino ovvio che le
osservazioni che precedono indirizzano alla proposta di introdurre una
patrimoniale sui grandi patrimoni, come mezzo prioritario per il reperimento
dei fondi necessari a far fronte a qualche drammatico problema sociale.
Patrimoniale permanente (ovviamente con aliquote più leggere), e non una tantum sia chiaro, e dell’ordine (per quella una tantum) di almeno 5 punti percentuali. E decidendo che deve considerarsi grande patrimonio
quello al di sopra del milione e mezzo di euro. Se si valuta che il solo
patrimonio edilizio del paese ha una consistenza di circa ottomila miliardi,
anche solo una tassa patrimoniale media del 5% porterebbe nelle casse dello
stato quaranta miliardi.
La questione è rilevante anche
per quanto riguarda l’IMU. Ripeto fino alla noia che la più grande sciocchezza
è quella di parlare e insistere sulla “prima” casa. E’ invece necessario
parlare di “unica” casa: se non è di lusso è del tutto logico che l’IMU
sull’unica casa venga eliminata, ricompensata da un aggravio dell’imposta su
chi ha anche la seconda, la terza, la quarta e via patrimonializzando. Le tasse
sono decisive, perché nel bilancio dello Stato rappresentano quasi il 90% di
quei 520 miliardi di euro che sono le entrate previste per il 2013.
Due punti chiave sui quali
intervenire: il bilancio della Difesa presenta una spesa di 21 miliardi, dei
quali 9,68 sono il costo del personale della Funzione difesa (esercito,
aviazione, marina), con i 180 mila militari, e 5,76 miliardi il costo della
sicurezza interna, cioè dell’arma dei carabinieri. Non sono in quei 21 miliardi
i costi per gli inutili, dannosi e inefficaci aerei, il cui contratto di
acquisto va semplicemente stracciato. Ridurre il bilancio della difesa anche
solo di un 5% vorrebbe dire risparmiare un miliardo. Dove metterlo? Per esempio
nel bilancio di Istruzione, università e ricerca, ridotto al lumicino,
nonostante i 40,7 miliardi, perché quella attività è riconosciuta come il
motore fondamentale di qualunque ripresa economica finalizzata al paese e non
ai guadagni illeciti di qualche sporcaccione.
Poi, certo, restituire all’Europa
la lettera berlusconiana di accettazione del vincolo del 3% sulla passività di
bilancio e rivendicare che in ogni caso non entrano in quel computo le
passività derivanti da investimenti destinati all’attività produttiva. E qui
sta il punto decisivo: riavviare con forza la presenza pubblica nell’economia,
alla facce di tutte le lenzuolate e delle stupidaggini ultraliberiste sul
privato è bello e sulla legge del mercato.
Per oggi basta. Ne riparliamo, sperando
in critiche, correzioni, aggiornamenti. Tutto può servire.
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