Ieri sera, su RAI3, Carlo Lucarelli ci ha raccontato con la consueta maestria la storia della “mala del Brenta”, una banda criminale che un abile e disinvolto individuo ha costruito negli anni con rapine, case da gioco, traffico di armi e stupefacenti, riciclaggio di denaro sporco, corruzione di appartenenti a corpi dello Stato, mettendo insieme una ricchezza enorme disseminata nelle banche di mezza Europa. Non sono mancati, ovviamente, una trentina di omicidi. La “mala” si è presto trasformata in una potente mafia del nord (il Brenta scorre nel Veneto). L’intraprendente capobanda, dopo essere stato più volte arrestato e altrettante volte evaso con la complicità di guardie compiacenti, ha saputo cogliere l’occasione offerta dalla legislazione che prevede i pentiti di mafia, e ha cominciato a raccontare molte cose, persino che una parte degli omicidi lo vedevano direttamente coinvolto e non solo mandante. I suoi racconti, così si dice, hanno agevolato la cattura di qualche centinaio di individui a vario titoli implicati nelle vicende che hanno visto terrificante autrice la banda. E così nel processo il capobanda è stato condannato a 17 anni, se non ho capito male già scontati.
La mia memoria corre sempre ai fatti del luglio 2001, e registra che nel processo di appello a carico di 25 manifestanti, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, uno di questi è stato condannato a 15 anni di galera. Si noti che l’imputazione prevedeva danneggiamenti a vetrine, automobili e bancomat.
Se non ricordo male, la legge dice che la pena deve essere finalizzata al recupero del colpevole e sempre commisurata alla gravità della colpa. Il codice fissa il minimo e il massimo per ogni reato, fatte salve le attenuanti e le aggravanti. E poi c’è la giurisdizione speciale. Ma la mia domanda è: c’è un nesso tra 17 anni per chi si è reso direttamente responsabile di numerosi omicidi, oltre a tutto il resto, e che non ha neppure restituito la montagna di denaro illecitamente accumulata, e i 15 anni comminati per danni alle cose? Intendiamoci, non giustifico le inutili bravate compiute a Genova, e che, va sempre ricordato, hanno offerto un alibi per la spietata e organizzata repressione nei confronti dei veri manifestanti; penso che siano reati e che i danni prodotti vadano risarciti, ma non offendiamo Beccaria più di tanto!
Non credo neppure che ci sia un coinvolgimento dei collegi giudicanti. A Genova, gli stessi giudici assolvono o condannano a pene lievi cadute in prescrizione una cospicua parte di quei 25, perché le loro azioni sono state “una reazione a cariche ingiustificate e violente dei reparti dei carabinieri”, un’azione di resistenza insomma. Per comminare 15 anni si sono forse limitati a una applicazione burocratica di ciò che prevede l’articolo del codice? E nel caso del capo della mafia del Brenta? Anche in quel caso, forse, i 17 anni derivano da un astruso calcolo di riduzioni successive previsto dalla legislazione speciale (uno degli amici avvocati che leggono mi aiuti a correggere eventuali errori interpretativi). Ma questo è il punto che voglio sollevare: penso che ogni legge e ogni articolo vadano applicati con una dose interpretativa che esalti il ruolo di un giudice e di un collegio giudicante, altrimenti la cosa si potrebbe risolvere a minor costo con un computer. Potrebbe essere una delle questioni da approfondire nel quadro di una riforma vera della giustizia (non quella di Alfano e di B, dunque!).
Un’ultima noterella. Se passasse la proposta leghista e berlusconiana dei giudici eletti direttamente dal popolo, nei due casi in questione avremmo avuto dieci ergastoli per il ragazzo di Genova e il Nobel per la pace per il capo della mafia del nord (bastava sentire nella trasmissione di Lucarelli i commenti di un po’ di concittadini dall’inconfondibile accento “brentiano”).
Giuliano Giuliani
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