Le due tragedie recenti, se pur così diverse tra loro, offrono spunti di accostamento al famoso verso dantesco.
I massacri ordinati dal dittatore, al quale il guascone baciava le mani, stanno avendo ragione della insurrezione. I bombardamenti hanno aperto la strada ai miliziani e ai mercenari e si annuncia la caduta dell’ultimo baluardo, Bengasi. Intanto, incuranti del prezzo atroce che tale riconquista sta costando al popolo libico (e non solo) le diplomazie mondiali stanno ancora discutendo se sia utile e praticabile, o meno, la no-fly zone, per impedire almeno le stragi commesse con l’aviazione. Sono molto più interessati a vedere come si muovono in borsa le quotazioni e a calcolare l’equivalente in barili e in metri cubi di gas. Nulla di nuovo, si dirà. Però il cinismo è ancora più squallido di quello al quale siamo purtroppo abituati.
Dove sta allora la contraddizione? Sta, a mio parere, in una visione del pacifismo che rischia di confondersi con l’indifferenza. Un intervento della comunità internazionale, con il divieto di circolazione aerea all’aviazione di Gheddafi e con una forza di interposizione, avrebbe potuto impedire i massacri e obbligare il dittatore a lasciare il campo a qualche nuova forma di democrazia. Ma per il pacifismo si sarebbe trattato, comunque, di un intervento militare, e quindi negativo a prescindere e contro il quale esprimere tutta la contrarietà. Anche a rischio di confondersi con le posizioni più negative espresse nell’ambito internazionale da Russia e Cina, cioè dal peggio che oggi esiste al mondo. Forse è il caso di riflettere sul fatto che, in Libia, non ci sarebbe stata “esportazione di democrazia” ma invece difesa di chi si batteva per avviare quel Paese sulla strada della democrazia contro le follie di un sanguinario dittatore.
In Giappone, la catastrofe nucleare sta persino facendo passare in secondo piano le distruzioni provocate dallo tsunami. I paesi diretti da governi civili hanno già messo allo studio sostanziali modificazioni delle strategie nucleari, con ampi ridimensionamenti e cancellazioni di progetti di nuove costruzioni di centrali. Ma ciò riguarda, appunto, i governi civili di paesi altrettanto civili. Da noi, ovviamente non va così. L’attenzione unica e prioritaria è guardare al rimpasto (che schifo, non usano neppure i guanti!) per accontentare gli appetiti dei cosiddetti responsabili, ai quali si sono aggiunti vecchi cialtroni temporaneamente eclissati per via delle case acquistate ad insaputa. Il capo di questa nuova schiera di postulanti è proprio l’ideatore della riprese nucleare italiana, tanto per renderci ancora più conto delle mani in cui siamo.
Ma le voci corali di cosiddetti ministri (e ministre, si è distinta persino quella che dovrebbe preoccuparsi dell’ambiente) hanno detto che si va avanti, neanche una piega. Miliardi su miliardi per poche percentuali di energia prodotta, e non si sa quando, perché i tempi sono lunghi. Governatori di destra che hanno detto sì ma non qui (escludendo categoricamente che l’impianto possa avvenire nei territori dei quali sono più propriamente s-governatori). Abolizione dei fondi per la produzione di energie alternativa (e balle su balle raccontate sull’argomento e sull’utilità delle scelte alternative da parte dei soliti servi prezzolati, ai quali si aggiunge anche qualche corifeo del centrosinistra). Il vero problema è che anche qui quello che conta sono l’impresa, gli affari, gli interessi, la cricca insomma. Chi c’è dietro Impregilo, la società del ponte sullo stretto e delle centrali? Sarebbe utile pubblicare gli elenchi. Come si fa per altri casi.
Dov’è allora la contraddizione? Che anche la costruzione di una centrale nucleare è lavoro, occupazione, anni di lavoro per tecnici, operai, progettisti, così come lo sono gli incrociatori e le corvette, o le pistole e i fucili. E allora anche le voci della tutela del lavoro, su questa questione del nucleare, appaiono flebili. Varrebbe la pena di concentrarsi un po’ di più sulle riconversioni.
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