martedì 25 giugno 2013

L’IVA E LE SCIOCCHEZZE



La CGIA di Mestre è considerata una struttura che sa far di conto e quindi prendiamo per buoni i suoi dati. In aprile ha pubblicato una interessante tabella per illustrare le ricadute dell’aumento di un punto dell’IVA. I dati apparvero sulla stampa per qualche giorno poi scomparvero, quando il tono politico cominciò a essere quello della “mannaia calata sulle teste degli italiani”, di un “ulteriore aggravio della recessione”, di una“manovra che colpisce ancora di più la crescita”. Perché? Perché i dati confermavano un’altra storia e dimostravano che erano ben altre le scelte e le decisioni che colpivano gli italiani, e in particolare quelli più deboli. Dei quali le scelte di governo si occupano solo verbalmente, per convenienza, e mai sul serio.
E allora guardiamo i dati della tabella della CGIA e commentiamoli.
Prima questione. L’aumento di un punto comporterebbe un aggravio di 103 euro su base annua (8,58 al mese) per una famiglia di 4 persone in grado di spendere 31.278 euro nel corso dell’anno. Documenta la CGIA che per una famiglia di 3 persone l’aggravio annuo sarebbe invece di 88 euro (7,33 al mese), con una capacità di spesa ovviamente ridotta. E’ interessante vedere come la CGIA ha individuato i settori di spesa della famiglia di 4 persone, ricordandone i principali. Ci sono ad esempio 7.400 euro di spesa alimentare, per i quali l’incremento annuo dell’IVA sarebbe di soli 2 euro (occorre ricordare che i prodotti fondamentali, pane pasta riso latte verdure, hanno l’IVA al 4%, carne pesce formaggi al 10%, ma per questi non è previsto nessun aumento; un prodotto colpito sarebbe lo spumante, ma è difficile considerarlo un bene primario, e in ogni caso la CGIA prevede che quella famiglia ne faccia un moderato consumo dal momento che prevede una maggiorazione su base annua di 2 euro!). Altri 2500 euro per abbigliamento, 2000 per i mobili, 1770 per il tempo libero la cultura e i giochi, 4300 per non meglio identificati beni e servizi, 729 per comunicazioni (accidenti ai telefonini!) e ben 6358 per i trasporti (sarebbe il caso che in quella famiglia si facessero qualche abbonamento).
Ma la cosa strabiliante è che i 103 euro di aggravio sono calcolati per una famiglia in grado di spendere più di 31 mila euro, quindi netti. Non viene in mente a nessuno di comparare questo dato con le dichiarazioni dei redditi? Per avere un netto di 31 mila euro il reddito lordo deve essere di 45.000 euro. Ebbene: la metà dei contribuenti italiani denuncia un reddito inferiore a 15.723 euro; il reddito medio per tutti i contribuenti è pari a 19.655 euro; quello dei lavoratori dipendenti è pari a 20.020 euro; quello dei pensionati a 15.520. Naturalmente, quello degli imprenditori è pari a 18.884, perché, come è noto, un padrone guadagna meno di un operaio che lavora per lui!
Allora, per famiglie normali, anche se lavorano in due, il reddito disponibile per la spesa è molto inferiore a quello sul quale la CGIA ha impostato i suoi calcoli, per altro giusti. Ed essendo inferiore, è persino ovvio che le riduzioni di spesa riguardino mobilia, abbigliamento, generici beni e servizi, cultura (purtroppo!) e trasporti (meglio abbonamenti e a piedi, quando è possibile!). Non riducendo le spese alimentari, per le quali l’aumento è come detto assolutamente ininfluente, si può dedurre che per una delle tante famiglie “normali” l’incidenza dell’aumento dell’IVA è pressoché prossimo allo zero o al più si riduce a qualche centesimo di euro al mese. E allora? La mannaia, la crescita colpita, la recessione? Tutte balle, tutto fumo negli occhi, pure campagne elettorali di queste bande farneticanti che pretendono di governarci. Il problema è che l’IVA sullo yacht e sulla Ferrari con l’aumento di un punto produrrà un aggravio di 10, 20 mila euro, e a quei maiali che si devono comprare lo yacht e la Ferrari dispiace! I consumi diminuiscono perché aumenta la povertà, perché aumentano disoccupati, precari, esodati, perché crescono le preoccupazioni e le angosce per il futuro. Ma di questo le caste non si occupano.
Basta vedere che fra le proposte per recuperare il gettito del punto in più di IVA (2 miliardi nei prossimi sei mesi, 4 e qualcosa il prossimo anno) c’è anche quella di aumentare le accise sulla benzina. Sono anche dei veri idioti: l’aumento del costo della benzina è stata una delle concause della riduzione degli acquisti di carburante (non male rispetto all’inquinamento, ma comunque un segnale di restringimento del reddito), e il calo del gettito fiscale proveniente dalle vendite è stato più alto del guadagno previsto con l’aumento delle accise!
Alla prossima.

VOTO: ANALISI DI UNA VOLTA



Già, una volta. Non solo si votava diversamente, ma anche l’analisi del voto era più seria. Intanto perché non ci si basava sulle percentuali, spesso ingannevoli, ma sui voti effettivi. E allora proviamoci.
Un dato è certo: in tutte le città capoluogo a cominciare da Roma nelle quali si è votato al ballottaggio, il candidato del PD e della coalizione che lo sosteneva hanno vinto superando il numero di voti ricevuti al primo turno, e ciò nonostante la crescita dell’astensionismo. Succede appunto a Roma, dove Marino acquisisce oltre 150.000 voti in più nonostante 183 mila votanti in meno, mentre Alemanno si deve accontentare di 10 mila voti in più, la metà di quelli che al primo turno sono andati a liste della destra fascista, i cui sostenitori avranno pur riconosciuto una vicinanza con le origini dell’ex sindaco. Non credo possano esistere dubbi sul fatto che una parte consistente dei voti grillini del primo turno (erano stati più di 130 mila) siano andati a Marino, che oltre tutto li aveva esplicitamente richiesti. Ma la stessa cosa avviene a Brescia (Del Bono guadagna più di 12 mila voti mentre il pidiellino si deve accontentare di un incremento  di soli 2 mila voti), a Treviso (Manildo migliora di 4 mila voti mentre il trucido sceriffo leghista si ferma a 3 mila) e a Imperia (il candidato piddino conquista 3 mila voti in più mentre il pidiellino scajolano arretra addirittura di 2 mila voti). Il PD festeggia con un 16 a 0 il voto delle grandi città, alle quali potrà probabilmente aggiungere le quattro città capoluogo della Sicilia, realizzando un vero cappotto: 20 a zero (e prima delle elezioni il punteggio era di parità, 10 a 10, ma con dentro città come Roma, Brescia, Vicenza, Viterbo, Catania, Messina che erano tutte a gestione berluschina).
Dalla Sicilia viene un risultato importante: la quasi scomparsa del movimento grillino. Alcuni dati, fra quelli pervenuti dato l’allucinante ritardo nello spoglio, la dicono lunga. A Catania, dove vince Bianco al primo turno (e non è una bella cosa, dato il livello dell’individuo) Grillo retrocede dai 18 mila voti delle regionali del 2012 e dai 48 mila delle politiche di tre mesi fa a 5.869 voti. Idem a Siracusa: dai 19 mila del 2012 e dai 22 mila e passa di tre mesi fa a 2.315 voti. Buffoni del calibro del comico e di quel sedicente filosofo genovese dicono che hanno vinto a Pomezia, in un paesino sardo e che, forse, vanno al ballottaggio a Ragusa. Chi si contenta gode, dice un tiepido proverbio, ma la questione sembra proprio un’altra: tre mesi di figuracce, di insipienza, di non fare nulla rispetto alle promesse hanno già stancato e disilluso una fetta enorme di cittadini che a quel movimento si erano rivolti attratti dalle imprecazioni contro la casta, assolutamente giuste ma altrettanto assolutamente insufficienti a determinare un orientamento politico e soprattutto una strategia con la quale tentare di portare a soluzione almeno uno dei problemi che affliggono sempre di più il paese.
Resta impressionante la celerità con la quale si cambia opinione nei confronti delle cinque stelle contrapposta alla lentezza con la quale ci si allontana da quel buco nero della decenza e della politica rappresentato dalla truppa berlusconiana. Ma può destare impressione anche il fatto che, nonostante l’inciucio, altrimenti detto larghe intese dai suoi promotori, e il conseguente governo Lupetta (ringrazio ancora una volta Crozza per una delle sue genialità: Lupi+Letta=Lupetta!), una parte ancora così rilevante del corpo elettorale, per quanto ulteriormente ridotto dall’astensione, abbia dato fiducia al PD. Conta indubbiamente la logica del meno peggio, anche se non sempre è così (nel senso che al peggio non c’è mai fine!) o in qualche caso non lo è davvero (vedi Roma, dove sicuramente la scelta di Marino è stata un’ottima scelta, basta guardarsi indietro!). Credo che prevalga lo smarrimento derivante dalla assenza di alternative. E qui il discorso ritorno al dramma della sinistra, al suo sempre più ridotto consenso, alla incapacità di offrire risposte credibili, alla sterile contrapposizione tutta ideologica e mai nel merito delle questioni. Oltre a prove di vero e proprio istinto suicida. L’altro giorno sentivo un compagno di Rifondazione esaltare con convinzione il bisogno di correnti all’interno di un partito. Come dire che, superata in discesa la soglia dell’1% ci si debba limitare alla conquista del 2 o 3 per mille dei consensi.
No, non credo proprio che quel terzo abbondante di cittadini che non votano si possano interessare alle dispute correntizie. Facciamo qualcosa prima che quel terzo diventi metà o anche più. E soprattutto non consoliamoci con la raggiunta assimilazione all’andamento presente in molti paesi dell’occidente. In quei paesi non si era mai superata la soglia del 90% di partecipazione e quindi i loro livelli attuali sono un lento calo, non un precipizio. Se c’è un precipizio ci casca dentro anche ciò che resta della democrazia.

NON SI VOTA PIÙ COME UNA VOLTA!



Ho appreso su FB che, per cercare di attenuare il crollo di consensi registrato nelle recenti elezioni amministrative, il guru delle stelle ha paragonato il recente voto di Roma con quello di cinque anni fa. Dal che risulterebbe uno strepitoso aumento del 222%! Solo un cialtrone come lui potrebbe essere capace di una cosa così azzardata. E lo conferma il fatto che i crolli degli altri (PD e PdL) sono calcolati non sulla base delle minori percentuali di voto registrate ma in percentuale sul calo dei voti ricevuti. Insomma, se gli elettori erano 100 e un partito aveva 50 voti, la sua percentuale era 50%; se poi votano in 50 e i voti ricevuti sono 25 non conta il fatto che la sua percentuale sia rimasta pari al 50%, conta invece che abbia perso il 50% dei voti (altra cosa sarebbe la preoccupazione per il calo enorme di affluenza al voto, ma di questo parliamo più avanti). Ovviamente è ridicolo che il cialtrone faccia il confronto con cinque anni fa, all’esordio del M5S, e non invece con il voto di tre mesi fa, cioè con l’altro ieri. Oltretutto a Roma si era votato negli stessi giorni anche per le regionali, vicine quindi alla logica di un voto amministrativo, e il candidato di Grillo, pur perdendo 120.000 voti rispetto al voto delle politiche (già è incredibile che 120.000 elettori cambino voto cambiando scheda!), aveva comunque ottenuto 316.923 voti, pari al 20,09%, oltre 185.000 voti in più di quelli che tre mesi dopo porta a casa il candidato sindaco, con il 12,8%.
Credo che non possano esserci dubbi sul fatto che: cianciare di scontrini; rifiutare ogni logica di governo del paese; limitarsi alle condanne dei servi dell’informazione, mistificando oltretutto il fatto innegabile che la presenza in ogni talk-show delle comparsate di Grillo nelle piazze ha certamente favorito il consenso alle liste del movimento; tutto ciò abbia deluso centinaia di migliaia di elettori (potremmo dire quasi 5 milioni se il dato si riflettesse sulla platea nazionale). Il risultato negativo pare stia creando rabbia e dissenso fra molti degli eletti. Non ci sono fra questi soltanto quelli che non intendono rinunciare così presto ai privilegi e ai soldi che le cariche parlamentari e amministrative consentono. Credo che ci siano tanti, a differenze di chi indecorosamente li rappresenta e si arroga il diritto di esserne ispiratore e portavoce, a essere davvero già stanchi di questo modo inconcludente di condurre una battaglia politica, specialmente in presenza di una crisi gravissima che ogni giorno aumenta in dimensione e pericolosità. Speriamo che qualche risultato si concretizzi. E ancora di più dopo le ultime offese del pessimo comico indirizzate contro uno dei galantuomini del paese, proprio quel Rodotà che un mese fa elettori e parlamentari grillini volevano, giustamente, come presidente della repubblica!
Dicevo del dramma dell’astensione. E’ di una dimensione spaventosa. Mette in secondo piano il fatto, pur positivo, che la destra abbia perduto consensi e che il ballottaggio potrebbe garantire a tante città una guida meno oltraggiosa di quelle precedenti della destra. Penso a Brescia, a Treviso, soprattutto a Roma: se qualcuno pensasse che Marino e Alemanno sono la stessa cosa lo inviterei a farsi ricoverare in psichiatria! Ha scritto Massimo Giannini qualche giorno fa su Repubblica: “Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana il mio voto non serve”. Si può aggiungere che purtroppo questo modo di pensare è presente proprio negli strati più deboli della popolazione. Ed è la contraddizione più lacerante, perché chi è forte, chi sta bene, chi è ricco, può anche fregarsene di chi e come si governa, mentre è proprio chi è debole che dovrebbe vedere garantito da qualche scelta di governo il diritto a forme di protezione. E invece no.  E’ proprio nei quartieri popolari che si era fatto avanti in modo prorompente il fenomeno grillino come espressione di sfiducia nella politica e che oggi si è registrata la più alta percentuale di astensione.
Che cosa conta la sinistra definita radicale? Il voto di Roma segna la definitiva scomparsa. Un candidato sindaco di valore, Medici, già valido e apprezzato presidente di un Municipio, raccoglie con una sua lista e con quella di Rifondazione e Comunisti italiani (fermi all’1,14%) soltanto l’1,99%. Oltre mille voti in meno di quelli raccolti dalla destra di Storace, Casa Pound e Forza nuova. C’è di che rabbrividire. O si comprende che si deve cambiare quasi tutto o il volontariato di quanti ancora pensano di fare qualcosa di utile per il paese e per i lavoratori è destinato a produrre soltanto frustrazione. Lo ripeto ancora una volta: i simboli e i nomi che pensiamo possano riassumere gli ideali e le giuste aspirazioni di cambiamenti profondi nell’assetto della società devono essere sostituiti da programmi concreti e realizzabili sui quali provare ancora a coinvolgere le persone. Non possiamo più ignorare che cosa la gente alla quale ci dovremmo rivolgere associa alla parola “comunismo”: senza andare indietro e stare all’oggi, il fatto che i principali miliardari del mondo siedano nel comitato centrale del partito comunista cinese, che i nordcoreani siano governati da un buffone coi capelli crestati che vorrebbe sommergere gli USA di missili lanciati con la fionda. La stessa Cuba, che a parte il familismo ha sicuramente realizzato riforme più che sane e condivisibili, ha una popolazione di 11 milioni che rispetto ai 7 miliardi di popolazione mondiale sono del tutto non rappresentativi.
Allora il riferimento ideologico non serve, può essere solo un diversivo. Forse una lista civica nazionale con un programma chiaro e leggibile potrebbe rappresentare un elemento di positività. Con il quale misurarci di nuovo nei quartieri, a cominciare proprio da quelli nei quali l’astensione dal voto può segnalare un bisogno inascoltato.

mercoledì 24 aprile 2013

NUMERI PER UN PROGRAMMA DI GOVERNO



Mi capita spesso di ripetere che sarebbe già un passo avanti per la bella politica se si cominciasse a parlare con i numeri invece di continuare a ripetere le stesse cose, a volte con parole diverse. Il vantaggio sarebbe innegabile: ognuno sarebbe in grado di riconoscere se quella proposta è favorevole o contraria alla propria condizione sociale, se lo aiuta a uscire dalla crisi e se obbliga qualcuno che non lo ha mai fatto a farsi carico dei problemi della società.
L’idea di fondo, un po’ bolscevica, è che si debba partire (esagerando un po’, ma a volte è necessario per potersi capire) da un concetto semplice: la ricchezza è un reato, commesso in proprio o da chi ha trasmesso l’eredità. E quindi che la ricchezza va colpita, nei modi consentiti dalle leggi e dai regolamenti. Cioè in primo luogo dal fisco.
Qualche esempio. Si era parlato di ridurre le prime aliquote di un punto, abbassare cioè dal 23 al 22 l’aliquota percentuale sullo scaglione fino a 15.000 euro lordi e dal 27 al 26 l’aliquota per il reddito lordo da 15.000 a 28.000 euro. Ciò avrebbe comportato riduzioni di tasse comprese fra i 150 e i 280 euro annui. Poco certo, ma in tempi di crisi non fanno schifo neppure quelli. Quello che fa schifo, invece, è che non c’era nessun riequilibrio per i redditi un po’ più alti. Quei 280 euro li avrebbero risparmiati anche Marchionne (no, lui no, perché va in Svizzera) e Berlusconi, tanto per citarne due a caso. Allora, sempre per stare ai numeri, quella proposta di riduzione dovrebbe essere integrata con l’aumento da 38 a 39 dell’aliquota fra 28.000 e 55.000 (in questo caso un reddito di 55.000 euro lordi avrebbe ancora un beneficio di 10 euro annui, ma si tratta di netti di oltre tremila euro mensili) e con l’aumento da 41 a 42 dell’aliquota per la parte di reddito fra 55.000 e 75.000 euro (e in questo caso il possessore di un reddito lordo di 75.000, cioè oltre 4000 euro netti al mese, avrebbe un aggravio di 190 euro all’anno, cioè 15, 83 euro al mese, non proprio un aggravio da suicidio).
Fin qui abbiamo parlato non di ricchezza, ma di legittimi redditi che provengono dal lavoro, dall’esercizio di botteghe commerciali, da attività artigianali, quando va bene. Ma è per significare come sia necessario affrontare la questione proprio partendo dai numeri. Ovviamente occorrerebbe rivedere al rialzo la tassazione per i redditi milionari, oggi del tutto assente: infatti lo scaglione più alto previsto è quello per redditi sopra i 75.000 euro ai quali si applica una aliquota del 43 per cento. Cioè in questo paese ridicolo non c’è differenza di ricchezza fra chi ha, poniamo, un reddito di 200.000 euro e chi ha invece un reddito di 200 milioni di euro! E ricordarsi che non Lenin, ma il democristiano Vanoni aveva previsto aliquote fino al 70% per i redditi davvero alti!
E’ persino ovvio che le osservazioni che precedono indirizzano alla proposta di introdurre una patrimoniale sui grandi patrimoni, come mezzo prioritario per il reperimento dei fondi necessari a far fronte a qualche drammatico problema sociale. Patrimoniale permanente (ovviamente con aliquote più leggere), e non una tantum sia chiaro, e dell’ordine (per quella una tantum) di almeno 5 punti percentuali. E decidendo che deve considerarsi grande patrimonio quello al di sopra del milione e mezzo di euro. Se si valuta che il solo patrimonio edilizio del paese ha una consistenza di circa ottomila miliardi, anche solo una tassa patrimoniale media del 5% porterebbe nelle casse dello stato quaranta miliardi.
La questione è rilevante anche per quanto riguarda l’IMU. Ripeto fino alla noia che la più grande sciocchezza è quella di parlare e insistere sulla “prima” casa. E’ invece necessario parlare di “unica” casa: se non è di lusso è del tutto logico che l’IMU sull’unica casa venga eliminata, ricompensata da un aggravio dell’imposta su chi ha anche la seconda, la terza, la quarta e via patrimonializzando. Le tasse sono decisive, perché nel bilancio dello Stato rappresentano quasi il 90% di quei 520 miliardi di euro che sono le entrate previste per il 2013.
Due punti chiave sui quali intervenire: il bilancio della Difesa presenta una spesa di 21 miliardi, dei quali 9,68 sono il costo del personale della Funzione difesa (esercito, aviazione, marina), con i 180 mila militari, e 5,76 miliardi il costo della sicurezza interna, cioè dell’arma dei carabinieri. Non sono in quei 21 miliardi i costi per gli inutili, dannosi e inefficaci aerei, il cui contratto di acquisto va semplicemente stracciato. Ridurre il bilancio della difesa anche solo di un 5% vorrebbe dire risparmiare un miliardo. Dove metterlo? Per esempio nel bilancio di Istruzione, università e ricerca, ridotto al lumicino, nonostante i 40,7 miliardi, perché quella attività è riconosciuta come il motore fondamentale di qualunque ripresa economica finalizzata al paese e non ai guadagni illeciti di qualche sporcaccione.
Poi, certo, restituire all’Europa la lettera berlusconiana di accettazione del vincolo del 3% sulla passività di bilancio e rivendicare che in ogni caso non entrano in quel computo le passività derivanti da investimenti destinati all’attività produttiva. E qui sta il punto decisivo: riavviare con forza la presenza pubblica nell’economia, alla facce di tutte le lenzuolate e delle stupidaggini ultraliberiste sul privato è bello e sulla legge del mercato.
Per oggi basta. Ne riparliamo, sperando in critiche, correzioni, aggiornamenti. Tutto può servire.

ELEZIONI IN FRIULI



Le elezioni in Friuli aprono ad alcune considerazioni interessanti, fermo restando il primo dato preoccupante rappresentato dall’enorme calo dell’affluenza al voto. Ha votato infatti solo il 50,48 per cento degli aventi diritto, con un calo di 27 punti percentuali rispetto alle elezioni di due mesi fa e soprattutto con un calo di circa 250 mila votanti.
Un’altra premessa riguarda il meccanismo elettorale delle regionali, molto diverso dal porcellum. Si può infatti votare soltanto per il candidato presidente senza votare anche per una lista che lo sostiene o anche in modo disgiunto (presidente e lista di un altro candidato). Questo ha fatto sì che ci sia stata una forte differenza fra i voti di ciascun candidato presidente e quelli ottenuti complessivamente dalle liste ad essi collegate.

Comunque le differenze registrate rispetto a solo due mesi fa sono impressionanti.
Primo dato. La candidata del centrosinistra Serracchiani ha avuto 211.508 voti, oltre 13 mila voti in più rispetto a quelli avuti dalla coalizione Bersani alla Camera. E ciò comporta che la percentuale, proprio per effetto del calo di votanti, sale dal 27,48 al 39,39, cioè addirittura di dodici punti. All’interno della coalizione è ottimo, anche se pur sempre contenuto, il risultato di SEL che acquisisce addirittura 58 voti in più, ma con incremento percentuale dal 2,45% al 4,45%. Ora è vero che il PD conquista come voto di lista solo 107.155 voti, rispetto ai 178.149 di due mesi fa, ma è addirittura ovvio che il voto alla Serracchiani individuava il partito di appartenenza. Vuol dire che la scelta di un candidato conta molto. E questo apre una serie di considerazioni sulla personalizzazione della politica che qui tralascio.
Secondo dato. Il PdL, che pure aumenta percentualmente di un punto, raccoglie oltre 54 mila voti in meno (andamento simile quello della Lega, che guadagna un punto e mezzo e lascia sul terreno oltre 15 mila voti. Dal punto di vista dei voti di lista va segnalato che quella personale del candidato del centrodestra Tondo raccoglie 42.847 voti, pari al 10,72%, che sommati a quelli del PdL, dell’UDC e della destra, oltre ai soliti pensionati d’appoggio, porta i voti di lista a 180.657, cioè il 45,21% dei voti di lista espressi. E questa è una delle cose incredibili del voto friulano. Un 45 e passa per cento come voto di lista e solo il 39% come voto da presidente, con un totale di 209.442. Si vede che proprio non potevano sopportarlo. Comunque il centrodestra due mesi fa aveva raccolto 201.865 voti, il 27,98% e che occorre ricordare che deu messi fa la lista Monti (alle regionali solo il pezzetto casiniano ha appoggiato il candidato del centrodestra) aveva avuto ben 92.813 voti, pari al 12,85%.
Terzo dato. Succede per il candidato grillino l’esatto opposto di quello accaduto a Tondo. La lista raccoglie soltanto 54.952 voti, il 13.75%, mentre il candidato Galluccio ne ha avuti 103.133, cioè il 19,21%. Ma per il grillino Galluccio il tonfo rispetto a due mesi fa è davvero impressionante. Alla Camera il M5S aveva raccolto 196.218 voti, pari al 27,22%. Quindi un calo di quasi 100 mila voti considerando quelli raccolti dal candidato e 142 mila rispetto alla lista. E ciò mentre tutto poteva lasciar pensare che, visto quello che stava succedendo in parlamento con l’elezione dei presidente, il M5S avrebbe fatto il pieno. Il capocomico dice che le elezioni regionali non hanno nulla a che vedere con le politiche. Contento lui!
Alla prossima.

domenica 21 aprile 2013

SCENARI DI UN PAESE DI… MACERIE



Lunedì il balletto ricomincia. Giuramento, un po’ di chiacchiere sulla democrazia e sul senso di responsabilità condiviso. E poi via alle cose serie. Fare il governo, ma non solo. Cioè, concretizzare l’inciucio, garantire chi ha problemi (quelli di casta, non di vita) e coprire le malefatte. Naturalmente (così diranno, senza vergogna) per affrontare i gravi, anzi gravissimi, non basta, tremendi problemi del paese (ormai con la p minuscola, visto come lo hanno ridotto).
Uno scenario mi sono permesso di tracciarlo quando la banda dei quattro (B B M M, dove la seconda M sta per Maroni) sono andati a piangere al colle: Amato premier e Berlusconi senatore a vita, e quindi immune per sempre. Poi Maroni ha fatto qualche bizza, Amato non lo vuole. Non è difficile fargli cambiare idea, basterebbe insinuare qualche dubbio sulla sua carica di governatore in Lombardia, ma insomma, non è il caso di complicarsi la vita. E allora vai con altre lungimiranti ipotesi.
La prima è davvero straordinaria. Un bel governo con dentro saggi e attuali ministri a volontà, presieduto da Enrico Letta con vice Gianni Letta. Zio e nipotino, stupendo: finalmente un governo che si occuperà della famiglia!

Ma se ne affaccia anche un'altra: incarico a Grasso, attuale taciturno presidente del senato. Questa scelta è più sottile dell’altra: si libera un posto. Un’occasione da non perdere per riequilibrare le cariche istituzionali, si fa per dire. D’altra parte Boldrini e Grasso li aveva scelti il PD, e visto lo stato comatoso intervenuto non vorrà mica pretendere di conservarle! Ma l’obiettivo sottile è un altro. Proviamo a pensare chi potremmo eleggere presidente del senato al posto di Grasso. Ma dai, non è poi così difficile, un nome a caso: Berlusconi! Non per altro si è fatto eleggere al senato; di lui si può pensare e dire il peggio immaginabile, ma non che sia uno stupido. Al fondo c’è che da presidente del senato, seconda carica della repubblichetta, in caso di impedimento si fa il saltino alla prima. E l’impedimento, vista l’età del attuale inquilino (e senza fare scongiuri in nessun senso), non è impossibile. Silvio coronerebbe così uno dei suoi sogni per niente nascosti e più ambiziosi. Poi, alla provvisorietà dell’incarico si potrebbe sempre porre rimedio con la rielezione mediante un altro inciucio. Renziani, margheritoni, veltroniani, dalemiani e giovani turchi stanno già meditando, se così si può dire.
E allora? Consegniamo il paese a Grillo e Casaleggio? Vedremo domani come gli effetti di queste giornate in parlamento si rifletteranno nel voto in Friuli-Venezia Giulia. La questione di fondo è che quel voto, ancora sostanzialmente di protesta e di rabbia, per altro del tutto comprensibili e giustificabili, coinvolge sempre di più un elettorato proveniente da un voto di sinistra. A cominciare proprio da questi occorrerebbe spiegare che la peggiore posizione dei due guru resta quella di continuare a non voler distinguere tra sinistra e destra, per succhiare anche da quella parte. E invece la differenza esiste sempre, eccome. Ma non viene fuori se ci si ostina soltanto a sventolare bandiere, simboli e nomi. Viene fuori, evidente e chiara, se si passa finalmente alle cose da fare, al come farle, con quale reperimento delle risorse e con quale prioritaria destinazione. Se si comincia finalmente a parlare anche con i numeri e non soltanto con gli slogan fatti di parole. Se, come si diceva una volta, c’è un programma.
Occorrerebbe lavorare in questa direzione. Almeno proviamoci.

domenica 3 marzo 2013


E ADESSO?



Dopo l’impressionante risultato elettorale di Grillo, su Facebook sono apparsi molti richiami a frasi di Hitler degli anni trenta, quindi prima della ascesa al potere, che sembrano aver ispirato diverse esternazioni del comico. Preferisco ovviamente fare riferimento a riflessioni e pensieri che rappresentano pagine fondamentali della nostra storia, e ringrazio Laura Tagliaferri, un’amica di FB, per avercelo ricordato. Il 26 aprile 1921, in un articolo dell’Ordine Nuovo, Antonio Gramsci scriveva: Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano, non modificati ancora da una tradizione nuova, dalla scuola, dalla convivenza in uno Stato bene ordinato e amministrato.” E qualche riga prima: “il fascismo non può essere che parzialmente assunto come fenomeno di classe, come movimento di forze politiche consapevoli di un fine reale…; è il nome della profonda decomposizione della società italiana… e oggi può essere spiegato solo con riferimento al basso livello di civiltà che la nazione italiana aveva potuto raggiungere in questi sessant’anni di amministrazione unitaria (e qui potremmo solo cambiare i dati in trent’anni di craxoberlusconismo)”.


Antipartitismo, versione ancora più pericolosa dell’antipolitica, perché esclude la possibilità di un pur minimo controllo democratico sulla gerarchia assoluta (binomia nel caso del grillismo). Idee vaghe e nebulose, non sostenute da alcuna prova di fattibilità (il reddito di cittadinanza, molto simile alla restituzione dell’IMU quanto a impraticabilità). Psicologia antisociale, frutto appunto di un trentennio di noncultura, di nani e ballerine, di malcostume diffuso.
Certo, c’è proprio tutto questo. E anche quel riferimento gramsciano al non poter “essere che parzialmente assunto come fenomeno di classe”. Devo fare autocritica: ero convinto che il grillismo potesse togliere voti solo o in misura assai prevalente alla destra. Non è andata affatto così. Una pagina intera di dati pubblicati opportunamente dal Secolo XIX, il quotidiano genovese, lo dimostra. Occorre premettere che fra le tante caratteristiche di Genova c’è anche quella di una marcata corrispondenza fra quartiere e ceto residenziale. Ebbene, il M5S conquista a Genova il 32% dei voti espressi; ma va nettamente oltre questa percentuale, sfiorando addirittura il 40% o persino superandolo, nei quartieri a prevalente insediamento popolare, mentre nei quartieri ricchi o della borghesia colta si ferma al 20%. Non foss’altro, per la sinistra ci sarebbe già materiale abbondante su cui riflettere. E anche per il centrosinistra, che a Genova e in Liguria gode di un insediamento diffuso che garantisce l’amministrazione della regione, del capoluogo e di gran parte del territorio, con esclusione del feudo scajolano dell’imperiese, prossimo alla caduta (ovviamente a sua insaputa).
Qualche spunto di riflessione, proprio sulla sinistra. Per la cosiddetta sinistra radicale, raccolta nella lista di Rivoluzione civile, le elezioni si sono risolte in un disastro: per restare a Genova, un risicato 2,2% alla Camera, un terzo dei voti che Rifondazione comunista, da sola, aveva ottenuto nel 2006. L’assemblaggio con i resti del dipietrismo non ha certo giovato, e neppure la disinvoltura nel promuovere alcune candidature. Ritengo tuttavia che l’errore più grave stia da un’altra parte. Nel concentrare cioè il messaggio più sulla critica a ciò che fanno i vicini che sulla valorizzazione della propria proposta. Quasi che l’obiettivo sia la redistribuzione dei voti piuttosto che la affermazione di uno schieramento alternativo alla destra, al quale partecipare anche a costo di dover rinunciare a qualche punto programmatico, e che conquisti il consenso convinto di quanti si rivolgono alla demagogia grillina.
Ora, intorno, ci sono solo macerie. Pensare di raccogliere qualche mattone meno danneggiato per rimettere in piedi un muricciolo mi sembrerebbe inutile e dannoso. Proviamo a ripartire dalle cose davvero prioritarie da fare, senza pregiudizi e privilegiando la fattibilità e la credibilità della proposta rispetto alla sacralità dell’ideologia e dei simboli, nonostante il valore che possono avere e il rispetto che meritano. Proviamoci, dobbiamo farlo, perché, tornando alle note di Gramsci in premessa, la fase che attraversiamo è una delle più complicate e rischiose dal dopoguerra.
 

sabato 19 gennaio 2013

RIDATECI LE TRIBUNE POLITICHE!





Alla fine ha dovuto chiedere scusa due volte per averla condotta male; sarebbe dignitoso riconoscere che è stata organizzata peggio. Mi riferisco a Leader, la trasmissione malcondotta da Lucia Annunziata, andata in onda venerdì sera su RAI 3, presentata come la grande novità che avrebbe dato, nel corso di quattro puntate, i capi delle principali liste “in pasto” ai cittadini. Primo ospite Ingroia, accompagnato da un po’ di candidati della lista Rivoluzione civile. Senza sorteggio, ovviamente, ma in base alla caratura del peso politico (vedremo la conferma nelle prossime puntate, se la direzione RAI non provvederà a sostituirla con qualcosa che abbia almeno il sapore della decenza). E subito qualcosa di strano c’è. Fra i candidati che accompagnano Ingroia c’è l’ex cinque stelle Favia (con l’accento sulla prima a, occorre precisarlo perché anche la conduttrice lo chiama Favìa, e lui giustamente la corregge, come dovrà fare anche con altri ospiti della trasmissione). Però, accenti a parte, la sua presenza giustifica il collegamento con un ampia palestra con grandi gradinate nella quale si esibisce Grillo, che mostra le sue doti di camminatori andando da una parte all’altra inseguito da una nutrita truppa di cameraman e portamicrofoni. C’entra? Forse, perché una prima accusa (o domanda) a Ingroia riguarda la possibile alleanza con il grand hotel. Giornalismo spinto, vedremo nelle prossime puntate.
Di possibili consumatori del “pasto” c’erano, al freddo, in piazza, una quindicina di operai di Pomigliano, qualche dipendente del San Filippo, un paio di giovani. Sul finire della puntata sono stati accolti in un una sala attigua e hanno potuto rivolgere un paio di domande. Prima, cioè per tre quarti di trasmissione, le domande la hanno fatte: una giornalista di Repubblica e il graziato direttore del Giornale (che naturalmente è stato protagonista di uno dei suoi soliti numeri tesi a impedire che da casa si capisse qualcosa); un rappresentante dei piccoli imprenditori trevigiani; un rappresentante di quartiere di Scampia, interessato soltanto a sapere perché un consigliere di Napoli sia stato candidato in Veneto; un sindacalista dei militari, comunque almeno contrario alle spese per armamenti, droni inclusi; un rappresentante di un’associazione di omosessuali, giustamente desideroso di sapere quale fosse l’orientamento di Ingroia sul tema dei diritti civili. Non potevano mancare due sindaci valsusini, interessati a sapere come il programma di Rivoluzione civile potesse essere contrario alla TAV avendo fra i promotori Di Pietro che la TAV la aveva approvata e sostenuta quando era ministro. La conduttrice non è stata neppure sfiorata dalla curiosità e non ha domandato ai due sindaci quale fosse semmai la loro posizione sulla TAV rispetto a quella dei molti cittadini valsusini. Anche per la circostanza che i due appartengono a due partiti schierati energicamente a favore della TAV: uno del PD e l’altro del PDL: questo, a scanso di equivoci, ha precisato di essere un galantuomo.
C’era già materia per sospettare una trasmissione condotta male e organizzata peggio. La certezza è arrivata quando sono entrati in scena i “cittadini”. Un operaio di Pomigliano ha inveito contro le critiche a Marchionne che servono solo a denigrare un’azienda che investe un miliardo (Bonanni non deve avergli spiegato che di miliardi da investire ne aveva promessi 24!). L’ospedaliero si è limitato a urlare che sono mesi che lui e sua moglie, anch’essa dipendente del San Filippo, non percepiscono stipendio, questione che è davvero difficile attribuire come colpa ad Ingroia. Che cercava di rispondere, spesso in maniera poco brillante e convincente. Alla fine hanno cercato di intervenire anche la sorella di Stefano Cucchi e la madre di Federico Aldrovandi, ma l’Annunziata ha presto interrotto entrambe con il solito artificio dei tempi stretti, quando si è resa conto che la cosa si complicava sul tema scottante delle violenze attribuibili a corpi dello Stato.
Insomma, come erano belle le Tribune politiche condotte da Jader Jacobelli e Ugo Zatterin! Belle anche perché a rispondere c’erano Togliatti, Nenni, persino Fanfani, e poi Moro, Pertini e il più grande di tutti, l’Enrico. Ecco, l’Annunziata non è certo Jacobelli e neppure Zatterin. Purtroppo anche Ingroia non assomiglia a quegli altri.
E non è certo un difetto soltanto suo. Mala tempora currunt.