Dieci anni. Tante, troppe cose da raccontare. Scelgo un argomento solo apparentemente minore, a mio parere non lo è. Quello dei comportamenti individuali. Ed emergono differenze abissali.
Ci sono pubblici ministeri che hanno indagato con forza, costanza e caparbietà sui reati commessi dagli alti gradi della polizia alla Diaz. Si è dedotto che hanno avuto coraggio. C’è un pubblico ministero che ha avallato l’invenzione dello sparo per aria ideata da quattro imbroglioni e ha chiesto l’archiviazione per l’omicidio di Carlo. Già, ma Carlo lo ha ucciso un reparto speciale di carabinieri. Ci sono giudici, anch’essi giudicati coraggiosi, che in appello hanno condannato quegli alti gradi della polizia (ancora più alti, se non è contraddittorio sottolinearlo, perché nel frattempo sono stati tutti promossi). Ci sono giudici che in primo grado li avevano assolti tutti. E c’è una giudice per le indagini preliminari che non ha concesso neppure un processo per l’omicidio di Carlo e ha archiviato il caso come richiesto dal pubblico ministero. Già, ma Carlo lo ha ucciso un reparto speciale di carabinieri.
Ci sono responsabili dell’ordine pubblico che sabato 23 luglio scorso, quando a Genova sfila un folto corteo pacifico, defilano i reparti in modo che non si veda una divisa. E non succede nulla. Ci sono responsabili (a volte si fa per dire) che infiltrano gruppetti di delinquenti e balordi per guidarli e lasciarli indisturbati mentre rompono vetrine e incendiano automobili e poi massacrano ragazzini inermi o manifestanti che si illudevano di resistere con gli scudi di polistirolo. Lo hanno studiato e programmato a tavolino nel luglio 2001, per inaugurare a Genova una selvaggia repressione con il consenso di una opinione pubblica manipolata. Ci sono sottufficiali dei carabinieri che denunciano vergognose imprese di loro superiori e commilitoni, come è avvenuto in Somalia nel 1994; e ufficiali dei carabinieri (gli stessi), passati a gradi altissimi, che quando vengono a testimoniare in tribunale le loro imprese di Piazza Alimonda, raccontano panzane per cercare di attenuare le proprie evidenti responsabilità.
Ci sono giornalisti che leggono le carte, svolgono inchieste, riferiscono i fatti realmente accaduti e ci aiutano a capire che cosa succede nel Paese e nel mondo. Ci sono scribacchini servi che intingono la penna nelle condutture fognarie e eseguono gli ordini; e quelli che, davanti a una telecamera, imitano il labiale mentre l’audio trasmette direttamente la voce del padrone.
E si potrebbero elencare altre differenze sostanziali all’interno della stessa categoria. Che cosa ne può discendere? La mia personale convinzione è che non sia più giusto usare i termini “collettivi”: magistratura, forze dell’ordine, giornalismo. No, occorre indicare i singoli con nome e cognome, differenziare i giudizi, non fare, come spesso si dice, di ogni erba un fascio. Evitare cioè che quella accezione collettiva serva da riparo agli indegni e offenda coloro che non hanno alcuna necessità di un riparo, o che possano addirittura far discendere dalla legittima salvaguardia della propria onorabilità una improvvida e pericolosa difesa in toto della “collettività” di riferimento.
Credo che il ragionamento, se non c’è un eccesso di presunzione, valga anche per la politica. Ma qui il discorso si complica. Ne parliamo un’altra volta.
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