mercoledì 23 febbraio 2011

LA CRISI ITALIANA

... Si dice generalmente e anche noi comunisti siamo soliti affermare che l’attuale situazione italiana è caratterizzata dalla rovina delle classi medie: ciò è vero, ma deve essere compreso in tutto il suo significato. La rovina delle classi medie è deleteria perché il sistema capitalistico non si sviluppa, ma invece subisce una restrizione: essa non è un fenomeno a sé, che possa essere esaminato  e alle cui conseguenze  si possa provvedere indipendentemente dalle condizioni generali dell’economia capitalistica; essa è la stessa crisi del regime capitalistico  che non riesce più e non potrà più riuscire a soddisfare le esigenze vitali del popolo italiano, che non riesce ad assicurare alla grande massa degli italiani il pane e il tetto.

Che la crisi delle classi medie sia oggi al primo piano è solo una fatto politico contingente, è solo la forma del periodo che appunto perciò chiamiamo <…>. Perché? Perché il <…> è sorto e si è sviluppato sul terreno di questa crisi nella sua fase incipiente, perché il <…> ha lottato contro il proletariato ed è giunto al potere sfruttando e organizzando l’incoscienza e la pecoraggine della piccola borghesia ubriaca di odio contro la classe operaia che riusciva, con la forza della sua organizzazione, ad attenuare i contraccolpi della crisi capitalistica nei suoi confronti. Perché il <…> si esaurisce e muore appunto perché non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, non ha appagato nessuna speranza, non ha lenito nessuna miseria. Ha fiaccato lo slancio rivoluzionario del proletariato, ha disperso i sindacati di classe, ha diminuito i salari e aumentato gli orari; ma ciò non bastava per assicurare una vitalità anche ristretta al sistema capitalistico; era necessario perciò un abbassamento di livello delle classi medie, la spoliazione e il saccheggio della economia piccolo borghese e quindi la soffocazione di ogni libertà e non solo delle libertà proletarie, e quindi la lotta non solo contro i partiti operai, ma anche e specialmente, in una fase determinata, contro tutti i partiti politici non <…>, contro tutte le associazioni non direttamente controllate dal <…> ufficiale.

È, naturalmente, un brano di un articolo di Antonio Gramsci pubblicato su L’Ordine Nuovo il 1° settembre 1924. Ho soltanto indicato con <…> il termine fascismo (o fascista), in modo che ciascuno possa dare ad esso la sua versione contemporanea. Non mi pare necessario sottolineare anche in questo caso la lucidità dell’analisi gramsciana. Posso solo aggiungere un paio di note, suggerite dallo stesso articolo, che peraltro riassumeva il rapporto che Gramsci aveva tenuto al Comitato centrale del partito nel luglio.
La prima è che il testo rifletteva una oggettiva condizione di crisi del fascismo, seguita all’uccisione di Giacomo Matteotti il 24 giugno 1924, nonostante i risultati elettorali del 6 aprile, che avevano visto l’enorme successo del “listone” (quasi il 65% dei votanti, limitati allora al solo sesso maschile). Ma Gramsci sottolineava che i risultati nelle zone industriale ed operaie erano stati di segno diverso.
La seconda è che le cose non andarono affatto come era augurabile, e che nessun ottimismo è mai consentito nei tempi bui. Nel discorso alla Camera del 3 gennaio 1925, Mussolini si assunse infatti la “responsabilità storica, politica e morale” dell’assassinio, con l’arroganza di un suo precedente intervento, quello pronunciato il 16 novembre in occasione dell’incarico di presidente del consiglio, che aveva concluso così: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco dei miei manipoli”.  Se non è un bivacco, l’uso attuale del parlamento vi è molto vicino. E poi c’è una data che dobbiamo sperare non sia imitata nella sostanza: quella del 6 aprile al Tribunale di Milano, appunto.

Non perdiamoci di vista

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